di GIULIA CIANCAGLINI
URBINO – Molto più di semplice musica, l’hip hop è stato un salto culturale: dalla violenza all’arte. Walk this Way. La subcultura Hip Hop degli Stati Uniti all’Italia del giovane giornalista Simone Nigrisoli fotografa da un punto di vista sociologico la cultura, o meglio la “subcultura“, in cui questa forma d’espressione affonda le sue radici. Per questo motivo l’autore è stato invitato a tenere un seminario all’Università di Urbino, per il corso di laurea in Media, Informazione e Pubblicità.
Lo scrittore focalizza la sua analisi sull’hip hop, partendo proprio dalla realtà che lo ha visto nascere, in quello che era uno dei quartieri più pericolosi di New York: il Bronx. “Dal 1968 al 1972 lì c’era la cosiddetta “war of gangs” – ricorda – poi tutti i capi delle gang organizzano una riunione, stilano un documento per fare in modo di migliorare la vita del quartiere che, di colpo, diventa un posto di pace”.
Nigrisoli ha ricordato anche la data di nascita del genere: l’11 agosto, perché “quel giorno del 1973 due dj organizzano una festa in cui fanno un esperimento musicale – racconta agli studenti – lo stacco tra secondo ritornello e strofa finale e lo mettono in loop, perché notano che in quello stacco le persone in pista ballano di più, si scatenano di più”. L’esperimento fu fatto in casa, con una cinquantina di persone. Alcuni giovani iniziarono a parlare sulla base musicale in rima, e nacque l’hip hop. Altri si misero a volteggiare a ritmo per terra, e nacque la breakdancing.
Nessuno, quel giorno, avrebbe pensato che l’hip hop sarebbe diventato il genere musicale ad oggi più ascoltato su Spotify. Dalle feste in casa si passò ai “block party”, feste dell’isolato in cui si rubava la corrente dai lampioni della luce per mettere la musica ad alto volume. Nigrisoli racconta le dinamiche, l’essenza complessa e spesso fonte di fraintendimento dei sobborghi delle metropoli americane in quegli anni. E sviscera i caratteri universali del genere che stava prendendo forma, come ad esempio: la centralità dell’impegno, l’importanza della perseveranza e del desiderio di miglioramento della propria condizione. Tutti elementi propri anche del “sogno americano”.
Il genere viene “normalizzato” e nascono quattro discipline: l'”MCing“, anche noto come musica rap; il “DJing”, mettere la musica in loop; il “writing”, disegnare sui muri con le bombolette e il “B-boying”, ovvero il ballo, sviluppato da afroamericani e latinoamericani del Bronx.
Con quel tentativo dell’11 agosto 1973 non nasce soltanto un genere musicale ma molto altro: un tipo di abbigliamento, uno stile di vita, una danza, una moda. Una vera e propria cultura.”E come ogni cultura ha dei valori – spiega l’autore del libro – antirazzismo solidarietà, antiviolenza, concetto di sfida non per denigrare gli altri ma per migliorare se stessi. La novità è essere veri (“be real”), spontanei (“be fresh”), rilassati, affidabili , tolleranti verso il prossimo, pieni di risorse, positivi e non lamentosi e violenti”.
Ecco il passaggio dalla violenze all’arte: “Dalle gang che vanno in giro a spararsi alle crew di ragazzi che ballano e cantano – come afferma Nigrisoli – così i giovani al posto di uccidersi scelgono di sfidarsi nelle quattro discipline”. Questo fenomeno appare agli occhi dell’autore come “una vera e propria magia” perché anche se non elimina completamente la violenza del quartiere, la diminuisce notevolmente.
Nigrisoli spiega agli studenti il motivo del titolo del libro. L’autore ha scelto di chiamare Walk this way la sua tesi di laurea che, arricchita da interviste esclusive a Ice One, Assalti frontali e Rula, si trasforma in saggio. Il titolo è stato scelto per la svolta della canzone degli Aerosmith. “Steven Tyler, sempre attento a tantissimi generi musicali, conosce la cultura hip hop e la inserisce in una sua canzone e fa un feauturing con una band hip hop. Propone agli RUN-DMC di fare un pezzo insieme: Walk This Way . Gli Aerosmith erano famosi in tutto il mondo e così per la prima volta l’hip hop viene globalizzato.”
Per far capire ai ragazzi il dna antirazzista del genere musicale, Nigrisoli sceglie queste parole: “L’hip non è multiculturale, ma interculturale. Perché multiculturale è un aggettivo che indica una persona che ha più culture mentre interculturale una persona che ha una sua cultura ma la condivide con altre persone. Ed è questo l’hip hop: culture che si uniscono.”