Le Marche, il lavoro e le donne: un terzo di stipendio in meno e tanto precariato in più

di MARIA LETIZIA CAMPARSI

URBINO – Nelle Marche ci sono sempre più donne precarie, sono meno pagate degli uomini o costrette a lasciare il lavoro con l’inizio della gravidanza. Situazioni che le aziende non si impegnano a sbloccare mentre i contratti di lavoro ancora non tutelano del tutto le donne. Un allarme che viene dalla Cgil Marche, dopo l’analisi dei dati relativi ai dipendenti nel settore privato. Ascoltato dalla Provincia di Pesaro e Urbino, che ha deciso di istituire un tavolo per promuovere la parità di genere sul lavoro a cui si può aderire entro il 21 giugno. Un invito rivolto a tutti i Comuni, enti pubblici, istituzioni, università, associazioni, sindacati e ordini professionali.

La differenza di salario tra uomini e donne

Le lavoratrici marchigiane, oltre ad avere retribuzioni piuttosto inferiori alla media nazionale (1.700 euro lordi annui in meno), percepiscono in media 7.100 euro lordi annui meno degli uomini. Si tratta di 22.583 euro per i lavoratori e 15.454 euro per le lavoratrici: tra i due generi dunque c’è uno scarto del 31,6%. Questo secondo gli ultimi dati disponibili dell’Inps (2016), rielaborati dall’Ires Cgil Marche.

Queste differenze sono condizionate anche dal maggior numero di contratti part time che le lavoratrici sono spesso costrette ad accettare, così come una maggior presenza di donne nei lavori e settori più poveri. Tuttavia, l’incidenza di contratti precari o a tempo parziale giustifica solo in parte il divario retributivo tra maschi e femmine. Le lavoratrici con contratto a tempo pieno e indeterminato infatti percepiscono 4.849 euro lordi annui in meno dei loro colleghi maschi, pari a -17,3%.

Osservando le qualifiche professionali, emergono notevoli differenze. Le retribuzioni delle operaie è di 6.612 euro lordi anni in meno rispetto a quelle degli operai (-35,6%), lo scarto tra impiegati uomini e donne è di 10.867 euro (-36,5%), lavoratrici con qualifica di quadro guadagnano 9.626 euro in meno dei colleghi (-15,3%), fino ad arrivare a una differenza di 35.194 euro lordi annui per le dirigenti (-25,9%).

“I part-time non sono spesso voluti ma l’unica offerta proposta – spiega Daniela Barbaresi, segretaria generale della Cgil Marche – questi dati evidenziano una situazione di diseguaglianza molto forte. Non c’è solo il problema del “tetto di cristallo” per cui le donne non riescono ad arrivare ai livelli più alti, ma c’è un problema di discriminazione anche a livelli più bassi. Adesso occorre andare avanti e portare quei temi sui contratti nazionali e renderli esigibili per tutti e tutte”.

Peraltro, salari più bassi significa pensioni più basse, e il fatto che il lavoro femminile si sia fatto sempre più discontinuo e precario non aiuta. Le pensionate marchigiane percepiscono una pensione media lorda mensile di 683 euro, ben al di sotto di quella percepita a livello nazionale e ben al di sotto di quella percepita degli uomini (-500 euro), una differenza che per le pensionate ex lavoratrici dipendenti arriva a -603 euro mensili.

Le pensioni in provincia di Pesaro e Urbino

Il divario tra le pensioni di uomini e donne a livello regionale è confermato dai dati della provincia di Pesaro e Urbino: se i primi percepiscono 1.285 euro lordi, le seconde arrivano appena a 714 euro. Pertanto queste ricevono mediamente 571 euro in meno ogni mese (-44% rispetto agli uomini), e questa differenza risulta ancora più marcata per le pensioni dei lavoratori dipendenti, per i quali il gap tra uomini e donne è di 876 euro mensili.

“Quota 100 non dà risposta alle donne, che nella maggior parte dei casi, hanno percorsi lavorativi discontinui e raramente raggiungono i 38 anni di contribuzione a 62 anni di età – per Silvia Cascioli, segretaria provinciale Cgil – inoltre la riduzione dei redditi da pensioni è anche dovuto agli effetti peggiorativi del sistema di calcolo contributivo che anche per i sistemi totalmente retributivi, è operativo dal 2012. Per ovviare a questa disparità nel panorama lavorativo, servirebbero paletti meno stringenti e servirebbe adottare un meccanismo di gradualità per i soggetti più deboli e per le donne, magari con una pensione anticipata”.

I numeri delle dimissioni dovute a gravidanza

Per quanto riguarda le difficoltà che incontrano le mamme lavoratrici, secondo i dati del 2016 forniti dal Ministero del Lavoro ed elaborati dall’Ires Cgil Marche, 801 lavoratrici si sono dimesse “volontariamente” nei primi 3 anni di età del figlio, andando a convalidare le dimissioni alla Direzione Provinciale del Lavoro. Ad esse andrebbe aggiunto il numero, difficile da quantificare, delle lavoratrici non tenute alla convalida delle dimissioni alla Dpl e quello delle precarie per le quali la maternità significa spesso la perdita di ogni speranza di rinnovo del contratto. Alle madri si aggiungono 147 padri lavoratori per un totale di 948 dimissioni nel 2016 (4,5% rispetto all’anno precedente). Un quadro che va inserito nella cornice della diminuzione delle nascite del 3,5% dal 2015 al 2016.

Tra i motivi della decisione di lasciare il posto di lavoro prevalgono le difficoltà di conciliare il lavoro con le esigenze di cura dei figli (48% delle persone). Osservando meglio le specifiche ragioni che hanno spinto alle dimissioni, risulta in primo luogo la mancanza di una rete parentale di supporto, la mancanza di posti nell’asilo nido e gli elevati costi dei servizi di cura al bambino, come babysitter e asili.

Le imprese dalle quali le lavoratrici provengono sono prevalentemente di piccole e piccolissime dimensioni, quasi sempre non sindacalizzate, e dove probabilmente è più difficile trovare risposte adeguate alle nuove esigenze di flessibilità richieste dalla nascita di un bambino: il 68% delle aziende che le donne lasciano quando nasce un figlio ha meno di 15 dipendenti.

“Bisognerebbe lavorare anche sul fronte culturale – continua la Barbaresi – stimolare la condivisione delle responsabilità familiare e del lavoro di cura del neonato. Se una donna rinuncia al lavoro è una sconfitta per tutti”.

Violenze e molestie sui luoghi di lavoro

Alle difficoltà dovute alle disuguaglianze sul lavoro si aggiungono le violenze e le molestie subite dalle donne mentre svolgono la propria attività. Secondo le ultime stime dell’Ires, sono 41 mila le donne tra i 15 e i 65 anni che nelle Marche hanno subito molestie fisiche o ricatti sessuali sul posto di lavoro, pari all’8,3%, di cui 16 mila negli ultimi 3 anni (3,1%). La maggior parte di loro non ne ha parlato con nessuno nel posto di lavoro.

“Occorre lavorare sul piano culturale ma in modo concreto – conclude la Barbaresi – da questo punto di vista, è importante l’accordo che Cgil, Cisl, Uil e Confindustria hanno sottoscritto due anni fa a livello nazionale, poi successivamente declinato in accordi in quattro province delle Marche, nel quale si definiscono le azioni concrete per contrastare e prevenire ogni atto o comportamento che si configuri come molestia o violenza sul lavoro. Cosi come sono importanti le intese istituzionali, tra cui il recente protocollo tra la Regione Marche e oltre 60 altri soggetti, tra cui organizzazioni sindacali, istituzioni e associazioni per attivare la rete regionale contro la violenza di genere”.

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