di GIULIA CIANCAGLINI e FRANCESCO COFANO
URBINO – La Cassazione ha stabilito che vendere i derivati di canapa è reato a prescindere dalla percentuale di thc (il principio attivo). La Prefettura di Pesaro ha catechizzato al riguardo i sindaci e le autorità del suo territorio, ma a Urbino la cannabis light si vende come prima.
Lo scorso 29 luglio, nell’incontro organizzato dal Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, il prefetto Vittorio Lapolla ha convocato i primi cittadini e le forze di polizia. All’ordine del giorno l’invito a informare i venditori dei derivati di canapa che la sentenza della Cassazione, depositata venti giorni prima, cambiava la situazione. Ma solo sulla carta, visto che i quattro rivenditori presenti in città – di cui tre distributori automatici – continuano a lavorare come se nulla fosse successo. Vendono oli, inflorescenze, foglie e resina anche se il collegio degli ermellini lo considera reato.
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Stando a quanto raccontano i gestori delle attività nessuno, né il Comune né le forze dell’ordine, li ha contattati dopo la pubblicazione della sentenza e il conseguente vertice in Prefettura. “Mi sono informato per conto mio perché ovviamente mi interessa – dice Marco, titolare di uno dei punti vendita automatici – ma nessuno si è fatto vivo. Continuo a rifornire la macchinetta come sempre, ogni venti giorni circa”.
Giorgia Brunetti è l’unica a vendere prodotti a base di canapa di persona nel suo negozio Cb Weed: “Non c’è nessuna novità, continuo a vendere le stesse cose. Anzi, sono la prima ad avere aperto qui a Urbino e, nel caso, voglio essere l’ultima a chiudere, dopo i distributori”. Un cartello con scritto “cedesi attività” all’ingresso di un altro rivenditore h24 fa pensare che la sentenza della Suprema Corte abbia avuto effetti. Ma non è così, come afferma il responsabile Christian Morri: “Voglio vendere l’attività perché a Urbino la clientela è stata sempre poca e sto per aprire a Fano. La sentenza non c’entra nulla, io continuo a fare riferimento sempre agli stessi valori di Thc”.
Come si è espressa la Cassazione?
La situazione nella città ducale si inserisce in un contesto nazionale ancora più confuso. La Cassazione, riunita a Sezioni Unite, avrebbe dovuto sciogliere la matassa, stabilendo una volta per tutte se alcuni derivati della canapa – oli, inflorescenze, resine e foglie – rientrano o meno nell’ambito di applicazione della legge 242 del 2016. E quindi se si possono vendere.
La sentenza della Suprema Corte dello scorso 10 luglio, a una prima lettura, appare chiara su questo punto. La norma del 2016 elenca con precisione i derivati che possono essere ottenuti dalla canapa e il catalogo non comprende foglie, oli, inflorescenze e resina. Con il verdetto della Cassazione la vendita di questi prodotti costituisce dunque un illecito penale, punito secondo quanto previsto dal Testo unico sugli stupefacenti, a prescindere dal contenuto di thc. I problemi interpretativi arrivano nell’ultima parte del dispositivo, dove si legge: “Salvo che tali derivati siano in concreto privi di ogni efficacia drogante o psicotropa”.
Il punto è proprio questo: chi stabilisce quando una sostanza ha effetto drogante o psicotropo? Secondo il professore universitario di diritto penale Alessandro Bondi è una valutazione che spetta al giudice caso per caso: “La sentenza della Cassazione offre al magistrato spazi di ulteriore valutazione del fatto concreto – spiega – si stabilisce un divieto, perché la commercializzazione di derivati di canapa è reato, ma si offrono due principi: la concreta offensività e la conoscibilità della norma penale”. In pratica sarà il tribunale a stabilire, di volta in volta, se il bene giuridico (in questo caso la salute della persona) è stato offeso e se la legge è chiara a sufficienza per non giustificare la condotta dell’imputato.
Nella decisione del giudice, la percentuale di principio attivo gioca ancora un ruolo determinante. Ma l’unica norma che offre uno strumento per valutare la quantità di thc è proprio la 242 del 2016, che fissa un margine di tolleranza fino allo 0,6%. Bisogna quindi fare ancora riferimento a questa legge, in mancanza di un atto che modifichi l’attuale quadro normativo.
Questa lacuna negli ultimi mesi ha innescato un corto circuito che si è riprodotto in molti comuni italiani. Come nel caso di Padova, Caserta, Mantova e Perugia, dove le forze dell’ordine hanno sequestrato le sostanze incriminate ma i rivenditori di cannabis light, dopo aver presentato ricorso, hanno vinto e hanno continuato a vendere perché il principio attivo era inferiore 0,6%. A Urbino nulla si è mosso, ma – secondo Bondi – “è comprensibile, visto che le motivazioni della sentenza sono molto recenti”.