di ELIA FOLCO e LUCA GASPERONI
Da malattia rara a patologia tra le più diffuse in Italia, da morbo, così come veniva chiamato nel Novecento, a dieta di tendenza: a quarant’anni di distanza dal primo riconoscimento statale la storia della celiachia nel nostro Paese si è completamente ribaltata. La malattia oggi coinvolge l’1% della popolazione italiana ed è diventata un fenomeno di moda anche per chi non ne soffre. Tanto che il mercato italiano del “gluten free” è il primo in Europa con un valore di 350 milioni di euro, 100 dei quali vengono spesi da persone che non sono celiache.
La celiachia è una malattia autoimmune, trasmissibile geneticamente, causata dall’intolleranza al glutine, una proteina contenuta in vari cereali: frumento, segale, orzo e avena. Chi ne è affetto deve consumare alimenti specifici privi di glutine, oggi sempre più diffusi a causa dell’elevata richiesta. Lo testimonia il paniere dei consumi Istat: nel 2015 per la prima volta due alimenti senza glutine (pasta e biscotti) sono entrati nella cerchia dei prodotti più comprati dagli italiani.
Una conseguenza figlia di nuove tendenze ma soprattutto di una crescita costante delle persone intolleranti al glutine: nel corso dell’ultimo decennio (2008-2018), infatti, il numero di celiaci diagnosticati è raddoppiato fino a sfondare quota 200.000. Cifre importanti che rappresentano però solo la punta dell’iceberg: secondo le stime degli esperti, infatti, la malattia coinvolgerebbe in tutto 600.000 persone e due terzi dei celiaci stimati non sarebbero stati ancora diagnosticati.
Con l’aumento della diagnostica è cresciuta anche la spesa statale, arrivando a toccare nel 2018 quota 250 milioni di euro. Dal 1982, infatti, il ministero della Salute eroga ai celiaci un buono mensile da spendere in farmacia o nella grande distribuzione per fare scorta di prodotti specifici. Da questo punto di vista il nostro Paese è all’avanguardia ma rimangono ancora dei problemi da risolvere. Ogni celiaco, infatti, deve districarsi in una giungla di differenze regionali dove cambiano modalità di erogazione del ticket, accesso alla grande distribuzione e presenza di strutture gluten free. E non può spendere i buoni fuori dalla regione di residenza.
Ma che cosa succede a un celiaco se entra in contatto con il glutine? “Quando viene ingerito gli anticorpi scatenano una risposta immunitaria, provocando un’infiammazione cronica dell’intestino – spiega il gastroenterologo Luca Elli, responsabile del Centro per la prevenzione e diagnosi della malattia celiaca di Milano – l’unica cura oggi è seguire una dieta priva di glutine, consumando prodotti specifici”.
Indice:
– Identikit di un celiaco
– Il Far west del ticket (modalità erogazione, testimonianze)
– Il boom della ristorazione
– The war on gluten tra bufale e nuove teorie
Identikit di un celiaco
Donna, tra i 19 e 65 anni, residente nel centro-nord: è l’identikit del celiaco medio. Partiamo dal genere: l’intolleranza al glutine è sbilanciata a favore delle donne, 70% rispetto al 30% degli uomini. La differenza è nella “predisposizione genetica” femminile e nella “risposta immunitaria sviluppata e veloce, probabilmente correlata al ruolo biologico”, spiegano gli esperti medici. Per quanto riguarda l’età la ripartizione è più omogenea. Le fasce maggiormente coinvolte sono quella 19-40 anni (34% del totale) e 41-65 anni (33%), consistente il contributo dei minorenni, residuale la presenza di anziani.
Delineare la distribuzione nella penisola è più difficile perché dipende da tre fattori regionali diversi:
- la popolazione totale;
- l’incidenza percentuale della malattia;
- la sensibilità culturale presente.
Un’abbondante metà dei celiaci italiani si trova in cinque regioni: Lombardia, Lazio, Campania, Emilia-Romagna e Piemonte, non a caso le cinque più popolose del Paese. Il discorso cambia se si analizza la percentuale di incidenza in proporzione alla popolazione: in cima alla classifica salgono Sardegna e Toscana, seguite da Valle d’Aosta e Umbria, dove incide il basso numero di abitanti.
Perché nell’isola e nella regione tirrenica si riscontrano valori così alti? Secondo Luca Elli dipende dal sistema sanitario regionale: “In Lombardia, così come in Toscana, ci sono molti centri che fanno sensibilizzazione e invitano a fare test, in altre zone meno, così viene sotto-diagnosticata”. Certo, un piccolo ruolo lo gioca anche il fattore territoriale: “Ci sono zone chiuse geneticamente, la Sardegna è un’isola e questo può giustificare il tasso superiore” ma il nodo centrale è “la sensibilità medica nel prescrivere lo screening o gli esami del sangue”.
Il fatto che le diagnosi siano in continuo aumento, invece, si spiega con i passi avanti fatti dalla medicina e una migliore conoscenza del tema. Il punto di riferimento è il documento di aggiornamento 191 del 2015, “Protocollo per la diagnosi e il follow up della celiachia”, che introduce le nuove linee guida da seguire. Il risultato è uno schema di calcolo (diverso per adulti e bambini) grazie al quale è possibile arrivare a un maggior numero di diagnosi precoci e allo stesso tempo ridurre quelle errate.
Il campanello d’allarme per molti celiaci sono sintomi come diarrea, gonfiore o dolore addominale, perdita di peso per mancato assorbimento intestinale, rallentamento nella crescita per i bambini. “Ma i sintomi sono diversi e spesso molto vari”, precisa Luca Elli che sottolinea anche la forte presenza di casi asintomatici.
Il primo step è “fare gli esami del sangue che sono il mezzo più rapido e meno invasivo, concentrandosi sui valori delle transglutaminasi”, spiega il direttore del centro per la prevenzione e diagnosi della celiachia di Milano. I pazienti con valori sopra alla norma, infatti, hanno una probabilità oltre il 95% di essere intolleranti al glutine. L’accertamento decisivo è la biopsia duodenale, definito il “golden standard” per il riconoscimento della malattia “perché lascia poco spazio a errori metodologici o interpretazione dei risultati”. Ottenuta la conferma finale, il paziente deve rivolgersi a uno specialista (o un dietologo) per essere aiutato nel passaggio a una dieta senza glutine.
Il Far west del ticket
La sensibilità medica è solo una delle tante differenze regionali: il sistema sanitario nazionale, infatti, ha lasciato libertà alle Regioni, favorendo frammentazione e diversità. Dal denaro a disposizione ai tetti di spesa personali, passando per i modi di ottenere e spendere il buono, ogni sistema sanitario regionale è lo sceriffo della contea e detta le proprie regole. “Questo oltre a creare disparità di trattamento ai celiaci, impedisce di fatto anche la libera concorrenza che, invece, permetterebbe una riduzione fisiologica dei prezzi per i prodotti”, annota l’ultima relazione annuale del ministero della Salute.
Ogni Regione riceve denaro dal sistema sanitario nazionale per finanziare l’emissione di ticket per l’acquisto di prodotti senza glutine, alimenti inseriti nell’omonimo registro nazionale stilato dal Ministero della salute. Il buono pro-capite di un celiaco italiano vale 1218 euro all’anno. La Sardegna, nonostante l’alto tasso di incidenza della malattia, o forse a causa, è la regione più “avara”: il pro-capite sardo annuale, infatti, è di 955 euro, l’unico al di sotto del migliaio in Italia. A fargli compagnia, in fondo alla classifica, ci sono le Marche (1.010) e l’Emilia-Romagna (1.096). In cima invece, tra le più generose, ci sono la provincia autonoma di Bolzano (1.527), la Valle d’Aosta (1.446) e il Molise (1.346). La maggioranza delle Regioni (13 su 20) si assestano nel mezzo, con somme tra i 1.100 e 1.300 euro all’anno.
Se il ‘quanto’ è importante, il ‘come’ ottenere i buoni lo è ancora di più. C’è chi se li trova caricati sulla tessera sanitaria e chi li deve andare a prendere all’Asl, chi le riceve sul conto corrente e chi viene dotato di una carta prepagata. Insomma, basta un salto in un’altra Regione per trovarsi in un sistema spesso completamente differente.
Le modalità di erogazione dei ticket senza glutine in Italia sono tre:
- buoni dematerializzati, caricati ogni mese direttamente sulla propria tessera sanitaria (Campania, Emilia-Romagna, Lombardia, Piemonte Puglia, Toscana, Umbria, Valle d’Aosta) alle quali si aggiungeranno nel 2020 altre quattro regioni (Friuli Venezia-Giulia, Lazio, Liguria, Marche);
- buoni cartacei, da ritirare all’azienda sanitaria locale più vicina (Abruzzo, Calabria, Molise, Sardegna, Sicilia, Veneto, provincia autonoma di Bolzano);
- modelli ad hoc (Basilicata e provincia autonoma di Trento). La prima fornisce una carta prepagata apposita, la seconda trasferisce i soldi direttamente sul conto corrente personale.
“Devo conservare tutti gli scontrini per un anno, perché qualora mi venisse richiesto un controllo dovrei portarli all’Asl per il conteggio – spiega Imelda Capello, 53 anni, trentina di Castelnuovo Valsugana – insomma ci devo stare attenta, il meccanismo potrebbe essere organizzato meglio”. Chi invece è soddisfatta è Paola Vigna, 42 anni, di Vercelli: “Il passaggio alla tessera sanitaria in Piemonte è stato un grande passo in avanti, non abbiamo più la scomodità dei buoni cartacei.”
Della stessa opinione anche Gloria Bastianelli, 27 anni, marchigiana originaria di Fermignano: “Un grosso vantaggio, soprattutto se ci sono vari negozi”. Le regione Marche, una delle quattro pronte al cambio nel 2020, ha di recente adottato il modello dematerializzato. “Fino a febbraio c’era la ricetta medica da ritirare e bisognava spendere tutto nello stesso negozio. Adesso invece posso comprare quello che mi serve quasi ovunque”.
Il “quasi”, spiegherà poi Gloria, è legato al fatto che nei supermercati marchigiani i buoni per i prodotti senza glutine non sono accettati. Ecco un altro rebus: non in tutte le Regioni – ne mancano all’appello ancora cinque – è possibile spendere i ticket nella grande distribuzione organizzata, dove spesso i prodotti sono più economici rispetto a farmacie e negozi specializzati. Un bel problema, soprattutto se si vive in provincia, dove ci sono solo farmacie. “Oltre a queste non ci sono tanti altri negozi di prodotti senza glutine che accettano il pagamento con la tessera sanitaria, la scelta è poca”, ribadisce Paola.
Rimane così solo un’opzione: muoversi verso centri più grandi, “dove ci sono moltissimi negozi forniti”. Anche per Jessica Carbone, 38 anni, lombarda, “i negozi sono sufficienti, ma non danno tutto quello di cui una persona ha bisogno”. Lo sa bene Gloria: “Vado a Fano per comprare il pane fatto a mano, a Pesaro per la pasta fresca in un posto accanto alla mia farmacia di fiducia, poi ritorno”. Un tour da 94 chilometri di macchina.
C’è un punto però ancora più urgente sul quale tutte insistono: poter usare i buoni anche fuori dai confini regionali. “Bisogna potenziare l’utilizzo della tessera sanitaria anche fuori dalla Lombardia – ribadisce Jessica che ha un bambino di sei anni, anche lui celiaco – così è troppo difficile andare in vacanza o passare un periodo fuori regione”. Il ministero della Salute, al lavoro su questo punto, avverte però che questo si potrà fare “solo quando la soluzione digitale raggiungerà tutte le Regioni”, scrive nella relazione ministeriale del 2018.
Nonostante le difficoltà e i tanti nodi ancora da sciogliere l’erogazione gratuita degli alimenti senza glutine l’Italia resta un’eccellenza tra le forme di assistenza del panorama internazionale. In particolare in Europa ci sono Paesi che non prevedono alcun sostegno alla terapia (Spagna, Irlanda e Austria) o pochi alimenti essenziali (dieci chili al mese di farina in Croazia, cinque chili al mese di farina in Serbia). Simili al modello italiano ci sono Francia e Belgio, che però riconoscono un sostegno economico limitato a fronte di un costo della vita più alto (46 euro al mese nel primo, 38 euro nel secondo) e il Regno Unito che prevede il pagamento di un ticket per la terapia dei celiaci. Infine ci sono Paesi che permettono di detrarre dalle imposte una parte dei costi sostenuti (Russia, Germania, Olanda e Portogallo).
Il boom della ristorazione
“Potresti pensare che l’Italia sia un inferno per gli intolleranti al glutine. Con nostra sorpresa, abbiamo scoperto che è molto più vicino al paradiso. La prevalenza del grano nella loro cucina, infatti, ha reso gli italiani particolarmente consapevoli della celiachia e l’Italia una delle migliori destinazioni europee per i viaggiatori attenti al cibo senza glutine”. Nel 2014 in un articolo sul New York Times, il giornalista americano Andrew Curry raccontava così il suo viaggio nel nostro Paese insieme alla moglie celiaca. Da allora la ristorazione gluten free ha continuato a crescere, occupando una fetta di mercato sempre più importante: a livello nazionale la media è di una struttura gluten free ogni 52 celiaci (dati 2018).
Una parabola che ha avuto il suo punto di partenza con la legge quadro 123 del 2005, la prima in cui il governo italiano ha affrontato il tema della ristorazione per i celiaci. Al suo interno, infatti, si introduceva l’obbligo per strutture pubbliche, mense scolastiche e ospedaliere, di fornire, sotto richiesta degli interessati, anche pasti senza glutine. La legge in un colpo solo portava alla luce un fenomeno ancora sotto traccia, riconoscendone la diffusione, obbligando lavoratori del settore a seguire corsi di formazione e stimolava imprenditori e cuochi a lanciarsi verso un settore che si preannunciava in crescita.
A quindici anni di distanza dall’entrata in vigore delle legge, oggi le mense italiane che offrono cibo senza glutine sono 38.434 di cui 26.541 scolastiche (69%), 7.077 (18%) ospedaliere e 4.816 legate alle pubblica amministrazione statale (13%). Le Regioni che registrano i numeri più alti sono Lombardia, Piemonte ed Emilia-Romagna: insieme raccolgono quasi la metà delle strutture presenti in tutta la penisola (18.644 mense). La ristorazione commerciale non è rimasta a guardare e si è lanciata nel business. Ad oggi sono 4.090 le strutture commerciali (hotel, ristoranti e pizzerie, bar e gelaterie, laboratori artigianali e gastronomici) presenti nel territorio nazionale secondo l’Associazione italiana celiaci (Aic), la principale organizzazione a sostegno della celiachia.
Un numero probabilmente al ribasso perché conteggia solamente le strutture che hanno soddisfatto i requisiti necessari per la certificazione Aic. Per aderire al progetto, infatti, le strutture devono seguire un corso formativo tenuto da un ente Aic, adeguare la struttura per evitare contaminazione tra i cibi (ad esempio creare una cucina solo per il senza glutine, progettare un sistema di aerazione autonomo e così via) e sottoporsi periodicamente a controlli e ispezioni. L’obiettivo è conquistarsi il simbolo “spiga barrata” dell’associazione ed essere iscritti nella guida nazionale Aic, una sorta di Touring Club in ambito alimentare che garantisce sicurezza e qualità nella ristorazione per celiaci. I ristoranti, però, possono presentarsi come locali gluten free e servire pasti adatti ai celiaci anche senza la certificazione “spiga barrata” assumendosene la responsabilità.
La distribuzione territoriale vede la Toscana leader assoluta tra le Regioni con 519 strutture gluten free, seguita da Lombardia (388) e Puglia (378). Buona la situazione anche in Piemonte e in Campania. La Toscana primeggia nelle categorie ristoranti, bar e gelaterie mentre la Puglia può contare su un’ampia rete di pizzerie e hotel con cucina dedicata. La Sicilia, nonostante una posizione a metà classifica ha, invece, un numero record di gastronomie senza glutine (42), tre volte sopra la media regionale. Nella sezione laboratori artigianali (panifici, pasticcerie, pizzerie al taglio) invece domina la Lombardia. In fondo alla classifica generale ci sono alcuni dei territori più piccoli, come Valle d’Aosta e Molise ma anche realtà come Basilicata e Sardegna, avare di possibilità rispetto alle dimensioni.
La distribuzione delle strutture gluten free non è omogenea e ci sono zone con molta più offerta rispetto ad altre. Al primo posto per incidenza c’è l’Umbria che, forte della sua undicesima posizione nella classifica assoluta, riesce a garantire una struttura gluten free ogni 19 persone. Sul podio anche Molise (una ogni 21 celiaci) e provincia autonoma di Trento (una ogni 22), segno che l’offerta è più che adeguata per la comunità celiaca presente. Tra le regioni più grandi, per territorio e numero di persone affette dall’intolleranza, la prima è la Toscana (una ogni 32), ultima la Lombardia (una ogni 99), in difficoltà a soddisfare l’ampia richiesta. Maglia nera con distacco la Sardegna, tre volte peggio rispetto alla media nazionale, con una struttura senza glutine ogni 152 celiaci.
The war on gluten tra bufale e nuove teorie
[aesop_gallery id=”291056″ revealfx=”off” overlay_revealfx=”off”]Con l’aumentare dei casi di celiachia e la maggiore attenzione pubblica il fenomeno del senza glutine è stato trainato e poi travolto dalla fake news veicolate da mezzi di informazione, siti alimentari e sedicenti esperti scientifici. Si è scatenata così una vera e propria guerra contro il glutine. Una delle bufale più diffuse riguarda i nuovi farinacei, che sarebbero responsabili dell’aumento dei casi di celiachia negli anni Duemila: nata sulle basi di un articolo virale del portale Grano salus, la notizia è stata ripresa dal blogger Riccardo Lautizi e poi rilanciata dal sito del Giornale, come riporta Open con un articolo di fact-checking.
Secondo la teoria pubblicata il grano comunemente usato oggi è modificato geneticamente e nella panificazione si aggiunge più glutine che in passato alla farina: l’accusa è di lavorare con varietà di frumento meno digeribili per scopi economici. “In realtà è esattamente il contrario – spiega il ricercatore del Crea (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria) Pasquale De Vita – le qualità di frumento moderne, che sono più produttive, hanno al loro interno meno proteine (-2%), di conseguenza meno glutine, che si forma proprio con l’unione di farina e acqua, ed è quella componente che permette di lavorare la farina”.
Nelle varietà moderne – continua il ricercatore del Crea – la resistenza dell’amido non è dovuta alla quantità di proteine contenute al loro interno, ma dal tipo di proteine stesse, più forti di quelle antiche. Questo ha fatto allora supporre che la tenacità del glutine potesse causare un aumento del numero di celiaci, ma De Vita smentisce anche questo punto: “La resistenza dei nuovi farinacei non ha nulla a che vedere con la celiachia perché la proteina che la scatena, la gliadina non è contenuta nel glutine ma è un’altra componente della pianta”.
Accanto a false notizie costruite su basi simil-scientifiche ci sono anche bufale, divenute quasi luoghi comuni, in virtù della loro semplicità e della loro diffusione virale. Il responsabile del Centro per la prevenzione e diagnosi della malattia celiaca di Milano, Luca Elli ha smentito le cinque più famose.
L’ultima teoria che tiene banco a livello mondiale riguarda la sensibilità non celiaca al glutine, un esempio, per molti, di come il glutine non faccia male solo ai celiaci ma a un numero più ampio di persone. I medici, infatti, hanno a che fare con un crescente numero di enigmatici casi di persone che, pur non soffrendo di celiachia o di allergia al grano, lamentano disturbi gastrointestinali e sintomi vari dopo l’ingestione di questo cereale. Si giustificherebbe così l’impennata del consumo dei prodotti senza glutine a livello globale.
“La celiachia è una malattia autoimmune e quindi ha degli anticorpi, viene scatenata dall’ingestione di glutine e il corpo esercita una risposta immunitaria – spiega il gastroenterologo Elli – la sensibilità è diversa, consiste in una serie di sintomi disomogenei che si manifestano nel paziente dopo l’ingestione”. Gli esperti scientifici sono divisi in due schieramenti contrapposti: alcuni sono convinti che si tratta semplicemente di malati immaginari, altri indagano per capire se esiste una nuova (o fino a oggi ignorata) forma di reazione avversa al grano.
In questo dibattito è intervenuta, nel 2018, la prestigiosa rivista scientifica americana Science con un articolo dal titolo The war on the gluten che inizia così: “I pazienti non erano pazzi, il dottore Knut Lundin ne era sicuro, ma il loro disturbo era un mistero. Erano convinti che il glutine li stesse facendo ammalare. Eppure non avevano la celiachia, una reazione autoimmune a quel groviglio spesso malvagio di proteine nel grano, nell’orzo e nella segale. E risultavano negativi ai test per l’allergia al grano. Occupavano una terra medica di nessuno.”
La ricerca della rivista avalla la seconda ipotesi – l’esistenza di una nuova forma di reazione legata ai fruttani del grano (Fodmap) – ma inserisce anche molti “se” suggerendo di andarci piano prima di proclamare guerra totale al glutine. La tendenza globale in atto, infatti, alimentata dalla moda e dalle dichiarazioni di personaggi famosi, ha già spinto milioni di persone non celiache a seguire una dieta gluten free. Ma questa decisione, portata all’estremo, può avere delle controindicazioni.
“Il rischio è che le persone si sottopongano a diete restrittive sempre più drastiche, prima eliminando il glutine, poi il lattosio, poi i Fodmap e alla fine la dieta diventi realmente, realmente povera”, conclude Science riportando le parole di Elena Verdù, gastroenterologa dell’università McMaster di Hamilton (Canada) e presidente della società nord americana per lo studio della celiachia. Consumare prodotti senza glutine può causare gravi carenze nutrizionali di fibre, di alcuni micronutrienti come zinco, magnesio, ferro, calcio, e alcune vitamine (B, D, acido folico). Senza contare che gli alimenti gluten free possono anche contenere zuccheri e grassi, soprattutto saturi, in quantità eccessive. In buona parte sono anche farciti con additivi alimentari. E uno studio delle università di Madrid e Barcellona sottolinea il rischio di sviluppare il diabete.
Più in generale il monito è di non farsi travolgere da una narrazione, mediatica e scientifica, che spesso porta il glutine sul banco degli imputati per ogni malessere fisico. Rinunciarci, infatti, espone chiunque, in maniera diametralmente simile, a una serie di altri rischi per la salute. Un celiaco non ha scelta ma per altri seguire una dieta senza glutine appare una scommessa immotivata. A questo si aggiunge la crescita del mercato dei prodotti gluten free. Certo, un numero maggiore di consumatori favorisce l’abbassamento dei prezzi e la diffusione dei prodotti ma allo stesso tempo mette i celiaci diagnosticati in competizione con persone sane per le quali i prodotti non sono necessari. E alimenta dubbi e confusione, mettendo in difficoltà il sistema sanitario nazionale nel riconoscere chi ne è realmente affetto e nel calibrare le misure assistenziali.
Insomma, il fenomeno va affrontato responsabilmente, cercando di stare lontano dagli estremismi e dai tanti punti scientifici ancora non risolti. Perché, come riassume la genetista americana Sarah A. Tishkoff in un articolo del New Yorker del 2014: “Se mangiare grano fosse così dannoso per noi, è difficile immaginare che la popolazione mondiale lo abbia mangiato e tollerato per circa 10.000 anni”.