di CECILIA ROSSI
URBINO – “Lavorare con Carlo Bo era come camminare sotto la pioggia con un grande ombrello”. Gianfranco Rossi, in occasione del ventesimo anniversario dalla morte di Carlo Bo, racconta a Il Ducato chi era l’uomo che dà il suo nome all’Ateneo urbinate. Rossi ha trascorso la maggior parte della sua vita a fianco dell’ex rettore all’Università degli studi di Urbino, dove è stato direttore amministrativo dal 1978 al 2002.
Tra amicizia e lavoro
Non sono tanti coloro che possono vantare di sapere chi fosse davvero Carlo Bo. “Mi ritengo un uomo fortunato” dice Rossi “perché quando si parla di Carlo Bo viene spontaneo identificarlo con il grande letterato, lo scrittore e il raffinato giornalista, mentre io ho avuto la possibilità di poterlo conoscere anche nella sua attività di governo dell’Ateneo, svolta con acute intuizioni, brillante lungimiranza e profonda concretezza”.
<h4>UNIVERSITÀ – <a href=”https://www.ilducato.it/2021/07/21/carlo-bo-un-testo-inedito-a-ventanni-dalla-scomparsa/”>Svelato un testo inedito di Carlo Bo</a></h4>
Un aneddoto alla volta, Rossi ripercorre i loro lunghi anni di sinergia, come quando Carlo Bo si fermò a pranzo a casa sua per la prima volta. Rossi ricorda con particolare simpatia quanto sua moglie si era stupita e intimorita per via della straordinaria altezza del rettore, di più di un metro e novanta. “Oltre alla stima e alla fiducia sul posto di lavoro, Carlo Bo mi ha gratificato anche di un grande affetto per me e la mia famiglia”.
Un’intesa fatta di sguardi
Rossi tratteggia un ritratto affettuoso di Bo, evidenziando quelle che erano le sue piccole stravaganze e contraddizioni che hanno reso un personaggio illustre della città anche un carissimo amico. “Nei nostri incontri quotidiani, il rettore ascoltava in silenzio e con apparente distacco, mentre in realtà si trattava di grande attenzione: si era creata un’intesa fatta di soli sguardi. Parlava poco, a bassa voce, ma ascoltava molto. Poteva sembrare una persona fredda e distante, ma bastava vederlo al caffè del circolo culturale cittadino per rendersi conto di quanta empatia avesse, circondata come a un cenacolo dagli altri professori”. Nello stesso bar oggi si trova appeso un quadro di Carlo Bo con sigaro in mano e Fedora in testa e una targhetta che recita “da quest’angolo Carlo Bo ha visto passare la vita”.
Pacato ma rivoluzionario
Carlo Bo divenne rettore dell’Università di Urbino nel 1947, dopo essersi trasferito ad Urbino nel 1938, per diventare professore di lingua e letteratura francese alla facoltà di Magistero. In poco tempo Bo decise di cambiare il volto dell’Ateneo che in quegli anni contava circa 3.000 studenti, contro i 15.000 di oggi. “Credo che nessun rettore si sarebbe imbarcato nell’avventura della costruzione dei collegi universitari e della ristrutturazione della sede del nuovo Magistero. Fu un periodo burrascoso, con l’Università quasi al collasso, superato con grandi difficoltà che consentì però di realizzare il suo sogno di garantire un alloggio ai suoi studenti”.
“Carlo Bo era un uomo prudente, misurava sempre le parole e ponderava le decisioni da prendere, ma al tempo stesso credo di poter affermare che sia stato, per me e per tutti quanti hanno fatto parte della famiglia dell’Università durante il suo rettorato, un grande condottiero”.
La città dell’anima
Bo rimase sempre profondamente attaccato alla città ducale, nonostante il primo impatto non fu dei migliori, fa sapere Rossi. “Arrivò qui dopo aver trascorso la sua vita in metropoli come Genova e Firenze e mi raccontò che il suo primo pensiero fu fuggire da una cittadina che sentiva troppo piccola e stretta per lui”.
Dopo poco tempo però non riuscì più a pensarsi in un nessun altro posto. “Gianfranco, potrò continuare a fare il rettore?” Carlo Bo rispose così alle congratulazioni del suo collega e amico dopo che era stato nominato senatore a vita nel 1984 dall’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini. “Temeva che, da senatore, avrebbe dovuto rinunciare all’Università per incompatibilità di servizio, che viene applicata ai senatori eletti ma non quelli nominati. Non voleva assolutamente abbandonare la sua Urbino, ‘la città dell’anima’, come la chiamava lui”.