Opinione pubblica e media nell’èra del referendum digitale. Boccia Artieri: “L’online amplifica la realtà”

Giovanni Boccia Artieri in una foto di Alessio Jacona
di SARA SPIMPOLO

URBINO – La novità del referendum con firma digitale è una rivoluzione nel panorama politico, culturale e anche mediale. Il processo che porta a uno dei pochi strumenti per l’esercizio della democrazia diretta si è fatto molto più veloce. Ma, visti i risultati che sta già ottenendo – vedi il referendum sulla cannabis – pone delle questioni inedite in merito alla formazione dell’opinione pubblica e al ruolo dei media mainstream e dei giornalisti.

Secondo Giovanni Boccia Artieri, docente dell’Università di Urbino e studioso di Sociologia dei processi culturali e comunicativi, il dibattito in rete può spingere all’azione, ma al contempo il giornalismo non deve cadere nella ‘trappola’ di offrire una percezione distorta dei fenomeni online.

Professore, in un mondo in cui il dibattito online è sempre più polarizzato, e in cui sono quotidiani gli esempi di flame, di temi che generano un’esplosione di novità, ma su cui poi la soglia dell’attenzione scema velocemente, questo strumento non può essere un rischio di ulteriore polarizzazione? 

“Il referendum è sempre polarizzante, non solo quando è online. Pone un tema di appartenenza, di solito viene fatto su tematiche che hanno a che fare con la tua identità e con il tuo modo di vedere il mondo. Questa cosa oggi si associa alle possibilità che dà la rete in termini di semplicità, ma anche al fatto che molto spesso i dibattiti sono online, e questo conta e incide nello strutturarsi dell’opinione pubblica. Per il referendum sulla cannabis, per esempio, mi sono imbattuto spessissimo in post in cui le persone dichiaravano di aver votato: quella cosa lì ha a che fare non solo con la tua scelta, ma soprattutto col tuo modo di rappresentarti. I meccanismi di ulteriore polarizzazione, posto che esistano, non sono il tema vero e proprio. Il tema qui è come circola l’informazione da WhatsApp a Telegram, e come funziona oggi la partecipazione”.

E come funziona?

“Quando ci fu il referendum sull’acqua pubblica nel 2011 (un’altra èra, dal punto di vista mediale) che veniva snobbato da tanti diversi partiti, riuscì comunque a passare perché le persone su Facebook dicevano ‘Vado a votare e prendo posizione’. Questo parlarne stimola l’azione. Anche oggi la partecipazione sui social è spinta da una sorta di ‘basso continuo’ di cose che ci interessano. Mentre sono online a farmi i fatti miei, incontro tematiche che catturano la mia attenzione e me ne formo un’opinione”.

Quindi secondo lei i social non creano una nuova realtà, ma ne diffondono una già esistente offline.

“Sì, l’online amplifica la velocità e la scala dei fenomeni, ma i fenomeni ci sono già di per sé. Cosa sposta un influencer che fa stories sui social a favore del referendum? Non sposta in realtà, amplifica. Noi oggi vediamo il risultato che ha avuto il referendum con la firma digitale, ma non sappiamo cosa sarebbe successo senza. Forse non ci sarebbe stata questa velocità e semplicità di raccolta firme, ma non possiamo dire che i numeri non sarebbero stati lo stesso alti”.

Ma non c’è il rischio che questa semplicità di firma possa tradursi in una scarsa informazione di chi firma, tanto più che questa novità potrebbe essere l’anticamera del voto online?

“Man mano si diffonderà la firma digitale. Questo rende la tematica del numero di raccolta firme importantissima. Bisognerà quindi decidere se rendere maggiore il numero di firme necessarie in base anche alla maggiore semplicità di voto. Laddove tu cerchi di garantire la democraticità dovresti garantire la possibilità di votare in ogni caso. Inoltre, se la firma digitale venisse estesa anche alla possibilità di votare online in ogni caso, potremmo avere l’occasione di sentire delle voci che di solito non trovano spazio nel dibattito politico, come quella dei giovani. Certo, la democrazia richiede sforzo, fosse anche solo quello di recarsi in un’urna o a un banchetto. Ora è da decidere se lo sforzo ai tempi del digitale, in cui basta andare sul sito e firmare, viene considerato sufficiente o meno. Questo deve deciderlo la politica”.

E come si pongono – o dovrebbero porsi – i media mainstream in questo quadro?

“L’ecosistema dell’informazione mette insieme media mainstrem e mondo della rete, che sono sempre ibridati. Anzi, spesso i media mainstream funzionano da alimentazione per ciò che vediamo online. ll loro ruolo difronte a questa novità resta quello di sempre, ovvero essere una delle voci della formazione dell’opinione pubblica. Loro però parlano a persone già fondamentalmente informate su un tema politico, e che già hanno una determinata idea su una questione. Online invece trovi temi politici (come questo referendum) anche non cercandoli, perché vedi la storia Instagram del tuo amico che ne parla”.

Qui però si inserisce il problema delle ‘bolle’ che si creano online?

“Ma le bolle sui social sono le stesse bolle che rappresentano i tuoi amici che incontri in pizzeria. Può esserci un comportamento imitativo spinto dalla rete, ma la tua cerchia sociale è uguale, online o no. Se voti perché vedi la storia Instagram del tuo amico, potresti votare anche perché lui te ne parla davanti a una pizza. Però magari voti perché c’è l’influencer che stimi che ne ha parlato: e qui torniamo alla questione identitaria. E in un mondo che si pensa post-ideologico, quella che noi chiamiamo ideologia spesso può essere un pezzo di ciò che chiamiamo identità”.

Torniamo alla polarizzazione. Spesso i giornalisti cavalcano l’onda dello scontro politico, e quella dei flame che esplodono e muoiono velocemente. Con questo strumento la loro responsabilità in merito diventa maggiore?

“Qui si inserisce il tema della possibilità di manipolazione della percezione. Se i giornalisti scoprono alcuni fenomeni online, magari seguendo una pagina Facebook che ha grandi numeri, ma non si chiedono se quei numeri sono reali, o frutto di manipolazione, e cosa c’è dietro, rischiano di offrire una percezione distorta dei fenomeni. Ad esempio: oggi sui giornali si parla dei ‘no pass’ come se queste persone fossero tantissime, ma saranno il 5 per cento della popolazione. Vale quindi la pena scrivere articoli che parlano di ‘Italia spaccata in due’? O questa idea nasce da un giornalista che è entrato in una pagina Telegram di no pass dove ci sono milioni di iscritti senza capire davvero chi sono quelle persone? Chi fa questo mestiere deve stare attento al contesto, a cosa c’è dietro ai numeri”.

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