DI EMILIA LEBAN E SARA SPIMPOLO
URBINO – “Volevo la libertà, volevo essere libero”. Farid Jafari è un rifugiato afgano. Ha 21 anni e vive a Fossombrone in una casetta dalle pareti azzurre, che condivide con alcuni ragazzi originari del Senegal: ha chiesto e ottenuto asilo politico e ha il permesso di soggiorno. Sul balcone ha appeso la stampa di una bandiera dell’Afghanistan: gliel’hanno regalata ad agosto, quando Kabul è caduta nelle mani dei talebani. Lo incontriamo nel suo giardino: è seduto su un muretto a gambe incrociate e ci sorride. È appena tornato da una lunga giornata di lavoro: fa lo spurgatore dal lunedì al venerdì e il cameriere durante il weekend. Non ha molto tempo libero, ma riesce comunque a fare un po’ di movimento fisico: “Il mio sport è sollevare i tubi”, scherza. E poi, una volta finito il turno, gli piace stare con gli amici, ascoltare musica indiana e, ovviamente, uscire con le ragazze.
È arrivato in Italia quattro anni fa, nascosto sotto un camion come fanno tanti altri. “Mi piace il mio Paese, ma fa paura. Non potevo più vivere in Afghanistan”. La prima volta che ha provato a scappare aveva 12 anni. Ha percorso la rotta balcanica fino alla Turchia, poi è salito su un barcone diretto in Grecia. “C’erano almeno 65 persone sopra, anche molte donne e bambini – racconta – C’era una falla e abbiamo iniziato a imbarcare acqua. Abbiamo dovuto chiamare la guardia costiera che ci ha riportati indietro”.
“Poi, un giorno ho sentito al telegiornale che le frontiere erano di nuovo aperte e ho voluto riprovare. I miei amici sono partiti e sono partito anche io”. E così Farid, per la seconda volta, si è messo in cammino, letteralmente. Ha attraversato a piedi le montagne del Pakistan e dell’Iran. “Sono morte tante persone facendo quel percorso. Ho visto le loro ossa, ma non mi hanno fatto paura: sono cresciuto dove le bombe esplodono tutti i giorni”.
È arrivato in Turchia, poi di nuovo in Grecia, e da lì ancora su un barcone, stavolta diretto ad Ancona. Qui la polizia lo ha fermato e rimandato in Grecia, dove è rimasto in carcere per dieci giorni. “Dovevo trovare una altro modo per entrare in Italia – spiega Farid -. Così, mi sono nascosto sotto un furgone e questa volta mi è andata bene”.
In Italia è stato ospite di due comunità. “Sono stato bene, mi hanno aiutato a trovare un lavoro – dice – Ora questo è il mio Paese”. Ma all’Afghanistan ci pensa spesso. Ha lasciato un fratello lì, il suo unico familiare: “Sono orfano. Non ricordo nemmeno i miei genitori, sono morti quando ero piccolissimo. Siamo sempre stati noi due da soli. Ci sentiamo almeno una volta a settimana”. Il fratello di Farid è ancora a Kabul. Non verrà in Italia: adesso ha una moglie e un figlio e per loro è troppo pericoloso mettersi in viaggio. E poi ha un’attività propria, un’officina. “Ora non ha tanti clienti per via dei talebani – dice Farid -. Ho paura per lui. Quella è gente che non ragiona: pensano solo a uccidere”.
Nonostante tutto a Farid manca il suo Paese. Vorrebbe tornarci un giorno, ma a due condizioni: che non ci siano più bombe e che le donne siano considerate alla pari degli uomini. Per adesso, però, il suo futuro è in Italia, perché alle promesse dei talebani non crede. Sta prendendo la patente e vuole mettere qualche soldo da parte. “Voglio fare beneficenza. Prenderò in sposa una ragazza afghana per portarla in Italia. Poi, se vuole lasciarmi non fa niente, intanto l’avrò salvata” dice senza riuscire a trattenere una risata.