Di ALICE TOMBESI
URBINO – Ad aprire i lavori della nona edizione del Festival del giornalismo culturale sarà il presidente Piero Dorfles insieme ai direttori Lella Mazzoli e Giorgio Zanchini. Dorfles, nato a Trieste nel 1946, sin da piccolo è cresciuto immerso nella letteratura fino a diventare giornalista e critico letterario. Responsabile dei servizi culturali del Giornale radio Rai, del giornalista sono noti il programma televisivo Per un pugno di libri, andato in onda su Rai 3, e la trasmissione radiofonica Il baco del millennio per Rai Radio 1. Il programma del Festival e l’elenco degli ospiti presenti sono sul sito del FGCult2021.
Cosa rappresenta per lei questa nona edizione del Festival del giornalismo culturale?
È una bella sfida perché il giornalismo culturale spesso viene considerato solo uno strumento al servizio delle notizie di cultura. Noi crediamo, anche in base al principio per cui un Paese non è solo la sua cultura ma anche la sua lingua, che si debba fare una riflessione su quanto noi giornalisti culturali siamo stati in grado di rappresentare lo sviluppo del Paese attraverso la lingua necessaria a raggiungere tutti. C’è qualcosa di arretrato nella percezione del nostro mestiere, come se il giornalismo culturale parlasse solo a pochi. Avrebbe, invece, il dovere di fornire a tutti lo strumento collettivo per entrare nella modernità, in un momento di grande competizione internazionale. Avere una lingua forte che tutti condividono, che non sia aulica e contemporaneamente adatta alle sfide del tempo è una cosa su cui confrontarsi. Il nostro paese continua ad avere zone di arretratezza culturale.
Al centro del Festival c’è il De vulgari eloquentia di Dante. Perché?
C’è dentro quell’opera qualcosa che ha a che fare con l’elemento fondante della nostra vita. Dante disse che bisognava fare l’italiano, la lingua collettiva, nella convinzione che, senza una lingua organica, l’Italia sarebbe apparsa unita solo geograficamente: i dialetti non erano sufficienti. Una lezione che vale ancora, soprattutto oggi, per superare un momento molto difficile che alle volte ci vede separati: da una parte la cultura ‘alta’ e dall’altra la cultura di ‘massa’.
Nel titolo di questa edizione c’è la parola “difesa” della lingua. Lei crede che la lingua che Dante invita a usare nel De vulgari eloquentia debba essere tutelata da quella diffusa sui social?
I social, pur avendo tanti meriti, semplificano molto la comunicazione. La scrittura attraverso emoticon tende a far perdere il rapporto con la complessità della lingua che, invece, ci permette di esprimere sentimenti con una profondità ben maggiore. Se ci abituiamo a una comunicazione superficiale, semplifichiamo anche il pensiero. Dovremmo, anzi, sviluppare la capacità di usare abitualmente le parole necessarie a esprimere la complessità. Ecco perché la nostra lingua va difesa, per non perdere le sue capacità espressive. La lingua deve saper rappresentare tutto quello che abbiamo intorno, per non trovarsi disarmati di fronte alla complessità del mondo.