di ENRICO MASCILLI MIGLIORINI
URBINO – Non ci sono didascalie, nomi o titoli a illustrare le opere della mostra ‘Pensieri della ricerca’, inaugurata questo sabato 2 aprile e aperta fino al 10 maggio 2022 alla Galleria Albani. Infatti, appena entrato, lo spettatore viene guidato esclusivamente dal suo gusto personale per i vari stili. Scultura e pittura si succedono nei locali della Galleria, dove le opere di Bruno Mangiaterra, Bruno Marcucci, Nevio Mengacci e Rocco Natale, gli artisti, dialogano fra di loro. Il curatore della mostra, Bruno Ceci, spiega:“Si tratta di un omaggio a Urbino, e la corrispondenza tra le opere indica il filo che le unisce: la coerenza tra le forme d’arte e la vita dell’artista”.
Il filo comune
Ma c’è altro che accomuna tutti gli artisti: il muoversi nell’ambito della sperimentazione, utilizzando materiali non canonici come talco, silicone o luci al neon. Tutti, poi, insegnano o sono stati alunni dell’Accademia delle Belle Arti di Urbino. Un istituto nato nel 1968 sotto il segno del dialogo con i giovani: “Queste opere sono qui perché i ragazzi ci parlino”, dice Ceci al Ducato.
“In un epoca in cui i giovani hanno di tutto, tra arte digitale e Nft (non-fungible token)”, nota lo scultore lucano Rocco Natale, “è una prova di fiducia e allo stesso tempo una ricchezza per una città universitaria come Urbino il credere che i ragazzi apprezzeranno questa mostra”.
Il vernissage gli dà ragione: tra vari coetanei degli autori (over 50), ci sono anche gruppi di giovani. Sono appassionati, studenti degli artisti o solo curiosi. Come Valentina, studentessa di psicologia: “Passavo per via Mazzini, ho viso la Galleria aperta e ho dato un’occhiata dalla strada. Mi sembrava interessante, così sono entrata: mi piace molto questa disposizione”. Oltre che non essere segnalate, le opere non sono riconducibili neanche a una collocazione spaziale: il curatore non ha voluto creare una stanza per ogni artista, ma i lavori sono mescolati, in una forma innovativa di comunicazione dell’arte.
Il filo comune è la radicalità nella ricerca, il rapporto diretto con il materiale usato e soprattutto il sentimento di creazione non spinto dalla commissione, ma da un bisogno personale. “La coerenza dell’arte nella vita dell’artista”, come assume Ceci e come un aneddoto di Mangiaterra conferma: “Un mio lavoro qui esposto, dal titolo ‘I millenni delle razze rosse, gialle e nere’, rappresenta il mondo come una pelle di vacca. Il titolo è una scritta al neon al centro della pelle, a indicarne la spina dorsale. Venne presentato a Brera. Due studenti mi si avvicinarono e mi chiesero: ‘Dove sono i bianchi?’. Risposi che non sapevo se meritassero di essere inseriti nella spina dorsale del mondo. Mi chiamarono dall’università per dirmi che l’opera era stata danneggiata, la scritta era rotta, mi chiesero cosa dovessero fare. Risposi: ‘Niente, è la dimostrazione di cosa fanno i bianchi agli altri popoli quando vengono esclusi da un discorso’”.
[aesop_gallery id=”302617″ revealfx=”off” overlay_revealfx=”off”]Le opere
“La sperimentazione fine a se stessa non è opera d’arte, ma se c’è un pensiero allora lo è”. Questa frase di Ceci è la sintesi del catalogo. Il rifiuto del mondo tecnologico e il volere riportare la mano nella creazione e nella vita del materiale sono percepibili in tutte le opere. “Per creare ‘Esposto alle intemperie’ – dice Nevio Mengacci al Ducato – ho preso una grande forma di gesso, l’ho messa fuori mentre pioveva e le gocce lo hanno butterato. In parte lo volevo, ma il risultato è stato una sorpresa anche per me”. La passione per l’astrofisica e per i colori neutri (bianco e nero) hanno invece spinto Mengacci a a provare a ricreare un buco nero su tela. “Non c’è un vero perché – spiega – è un discorso di coerenza tra quello che piace a un’artista e quello che espone, senza dovere pensare a cosa piace al pubblico”.
L’arte come salvezza
L’assessore del comune di Urbino con delega al Centro storico, Massimo Guidi, gli dà ragione: “Sono le opere d’arte che ci sorprendono e ci coinvolgono, e questa mostra è un grande omaggio a Urbino in quanto città d’arte”. L’inaugurazione prosegue tra citazioni di Baudelaire e Rembrant, quando Ceci racconta un aneddoto: “Nel 1824 Francisco Goya lascia la Spagna e arriva a Bordeaux in condizioni di salute ed economiche precarie, infatti morirà di lì a poco. Ha perso le sue opere, i suoi committenti ,ma non la dignità. Dipinge per sé, per il futuro”. Gli autori sono d’accordo su questo punto: le loro opere vogliono dichiarare che anche i “non giovani” hanno un peso nell’influenzare il futuro, magari un futuro meno tecnologico. “Crediamo che il pensiero della ricerca è possibile, è il colore, la forma”, chiude Ceci. “Che l’arte è capace di salvare l’umanità umana, che oggi qualcuno sembra volere distruggere”.