di ROBERTA ROTELLI e STEFANO SCIBILIA
URBINO – Una standing ovation, uno scroscio di applausi che dirompono dalla sala del trono di Palazzo Ducale. Urbino ha accolto così la giornalista della Nbc News, Courtney Kube , alla cerimonia di consegna del premio Urbino Award, dedicato alla stampa americana. I suoi reportage sulla guerra in Ucraina, Afghanistan, Siria, Libia e Iran e il lavoro svolto come corrispondente dal Pentagono, ma soprattutto l’aver dato voce a persone “in pericolo, emarginate, abusate e bistrattate” le sono valsi questo riconoscimento. “Io non avrei mai immaginato di fare la giornalista. Dopo il college avevo iniziato a studiare medicina, ma dopo un anno ho capito che non era per me. Per caso mi è capitata poi l’occasione di fare uno stage in Nbc news e lì ho capito che mi piaceva molto la televisione e soprattutto il backstage. Avevo 20 anni all’epoca e non avevo paura di niente”.
“Urbino è il luogo perfetto per parlare di rinascita, soprattutto dopo i due anni di pandemia che abbiamo vissuto – dice il giornalista del Resto del Carlino Giovanni Lani, ideatore di questo premio – la stampa deve trovare nei fatti lo stimolo per informare e far conoscere frammenti di realtà che altrimenti sarebbero oscuri. Per questo abbiamo scelto quest’anno Courtney Kube, una donna, una mamma, una giornalista e reporter di guerra che è riuscita a portare alla luce storie che altrimenti non avrebbero trovato ascolto”.
Il premio è stato istituito nel 2006 e torna dopo due anni di pandemia. Il protocollo prevede l’annuncio del vincitore a Washington e una settimana dopo la premiazione a Urbino. Tutti coloro che negli anni hanno vinto il premio poi contribuiscono alle selezioni dei vincitori negli anni successivi: “Ascoltare la voce di donne e uomini che raccontano i fatti della contemporaneità e dare loro un riconoscimento è la nostra missione – dichiara Lani – ed è per questo motivo che i giornalisti premiati in questi anni continuano con noi ad individuare nuovi nomi del giornalismo americano che anno dopo anno fanno la differenza con il loro lavoro. Kube è una giornalista che lavora nei punti più caldi del mondo, oltre ad essere una mamma sensibile e umana. Valori che ritroviamo nella sua professione”.
Prestare la propria voce ai più deboli
Ad aprire la cerimonia tra i tanti ospiti c’era anche Roberto Sgalla, direttore del Centro studi americani di Roma, che ha sottolineato come Urbino rappresenti un “ponte tra culture, quella europea e quella americana” e come da questa sinergia possa nascere una civiltà sempre più interconnessa. Ad intervistarla sul palco c’era Gabriele Cavalera del Comune di Urbino, segretario del premio, che ha rivolto alla reporter varie domande sia sulla sua professione che sulla sua vita privata. Nelle risposte della giornalista, 44 anni, da Bethesda, Maryland, sposata e con cinque figli, c’è tutto il senso di questo mestiere: “Ho potuto girare il mondo e dare tutta me stessa a questo lavoro che mi permetteva di raccontare storie di persone in pericolo, emarginate, abusate e bistrattate. Da quando sono diventata mamma però è tutto diverso perché ora ho la responsabilità di coloro che mi aspettano a casa oltre che del lavoro che svolgo. Spesso è stressante, spesso è difficile ma se mi guardo indietro e ripenso a quanto sono stata fortunata, non cambierei una virgola della mia carriera e della mia vita”.
Prosegue parlando di quanta preparazione e quanto studio ci voglia per svolgere la professione di giornalista: “Io sono quasi maniacale quando mi preparo per una missione. Studio tutto ciò che è stato scritto o detto sul paese dove sto andando e soprattutto cerco di entrare all’interno di quel mondo che spesso è anni luce distante dal mio. Per me è stato fondamentale prepararmi quando sono andata in Afghanistan e in Siria: tentare di dormire circondati dalle bombe che esplodono a Kabul non è facile e intervistare i comandanti talebani degli eserciti se si è donne, è una vera impresa”. Alla domanda “c’è qualcosa che rimpiange nella sua carriera?” Kube risponde con un sorriso amaro e dice: “La lezione più dura che ho imparato è che quando sbagli, soffri, come un cane. Soprattutto quando ti rendi conto che un tuo errore determina il lavoro di molti altri soffri due, tre, quattro, cento volte di più”.