di MARIA ELENA MARSICO
URBINO – Le celle sono vuote, solo una rete arrugginita e qualche bagno alla turca ricordano che lì dentro, chiusi dietro le sbarre, hanno vissuto centinaia di uomini. Siamo a San Girolamo, sotto la biblioteca dell’Università inaugurata nel 2020, dove una volta c’erano le prigioni di Urbino chiuse definitivamente nel 1987. A testimoniare come lì dentro non metta piede nessuno da anni c’è persino il cadavere mummificato di un gatto. Per visitare le vecchie celle, i corridoi, quelle che erano le cucine, i locali delle docce bisogna avere una torcia potente. Dalle pareti spuntano testimonianze di un’altra epoca. Su un manifesto c’è Nelson Piquet a fine anni Ottanta. Incollate alle mattonelle sorridono in una serie di caricature Caterina Caselli, John Travolta, nei panni di Tony Manero, e Mike Bongiorno: sono le figurine della rivista Tv Sorrisi e Canzoni e da oltre trent’anni sono lì.
[aesop_gallery id=”309873″]Il complesso di San Girolamo si sviluppa su quattro piani. I due più alti sono occupati dalla biblioteca, negli altri due c’erano le celle. La luce che entra dalle finestre non basta a illuminare i locali. Per accedervi bisogna attraversare un cortile. Oltre la porta blindata si trova un lungo corridoio. La pavimentazione, in alcuni punti, è rotta e a sinistra ci sono le celle. Se alcune conservano gli oggetti lasciati dai detenuti, in altre ci sono montagne di calcinacci e travi di legno. È impossibile entrarci. Per accedere al piano inferiore del carcere bisogna percorrere una lunga scalinata che dall’alto sembra portare nel vuoto tanto è buio. Lì c’è un altro corridoio, ancora più lungo. Ci sono celle sia a destra sia a sinistra. Sono più spaziose rispetto a quelle dei piani superiori.
Un carcere abbandonato non è solo un luogo da ristrutturare e destinare ad altro. È anche il testimone della vita di una comunità e delle persone che vi hanno vissuto. Per questo, per poter raccontare la sua storia, non basta descriverne le mura ma bisogna immergersi nei suoi archivi che sono conservati dove prevede la legge, nell’Archivio di Stato di Urbino. Lì ci sono faldoni su faldoni che contengono documenti amministrativi ma anche i fascicoli personali dei singoli detenuti con il racconto delle loro vite.
Da Palazzo Ducale all’ex convento San Girolamo
La storia del carcere di San Girolamo inizia alla fine dell’Ottocento. In archivio è documentato il trasferimento del carcere dalla sua antica sede di Palazzo Ducale all’ex convento. Tra le carte ingiallite dal tempo, c’è un articolo di Corrado Ricci, su La Tribuna, del 23 novembre 1886. “In una parte del Palazzo Ducale d’Urbino si tenevano i galeotti, che si lasciavano spesso liberamente passeggiare, urlare, bestemmiare e far qualcosa di peggio nel bel mezzo d’un chiostro su cui rispondono le finestre della residenza dell’Accademia Raffaello”, si legge. La notizia è su “Un disegno di legge all’ordine del giorno della Camera. Acquisto di stabile per l’impianto di una casa di custodia in Urbino”. Un documento del Comune di due anni prima, del 29 luglio 1884, sottolinea che l’uso delle carceri “nell’ex Palazzo Ducale non si addice ad un monumento di sì grande pregio artistico”. Cominciano così i lavori di sgombero e di trasferimento “in un’altra località”, come si legge in alcuni verbali. Nella residenza del Duca andrà, invece, l’Accademia di Belle Arti della città. I lavori di trasferimento, di “finimento” e di trasloco durano all’incirca otto anni, secondo quanto riportato dalla documentazione del Fondo Comunale dell’Archivio di Stato.
La nuova struttura pensata per il carcere si presenta con “tre piani, un terreno, 52 vani e due corti interne”. Oggi uno dei due giardini è letteralmente sommerso dalla vegetazione che ha avvolto ogni cosa: impossibile varcare la soglia della porta che conduce all’esterno.
Viaggio nel tempo
Dal 1890 il carcere entra in funzione a pieno regime e studiare le biografie di tutti coloro che ci sono stati rinchiusi è un po’ come fare un viaggio nel tempo. I reati sono quelli più comuni, furto e rapina, oltraggio a pubblico ufficiale, truffa. Ma anche violenza carnale e omicidio. E poi gli anni della guerra quando si andava in prigione per macellazione clandestina, furto di tabacco o di “carte da giuoco” e anche, siamo nel 1945, di una rivoltella delle forze armate alleate. E come in ogni carcere che si rispetti anche da quello di Urbino fuggirono. Nel marzo del 1972 riuscirono a eludere la sorveglianza e a evadere tre detenuti. Le carte raccontano solo che scapparono nelle prime ore del mattino ma non chiariscono se calarono il classico lenzuolo da una finestra o elusero in altro modo i guardiani.
Essendo l’unico carcere della città San Girolamo, nel suo secolo di vita ha ospitato anche qualche detenuta, si immagina in un settore separato della prigione. Nei fascicoli è anche registrata la presenza di un bambino, non si sa se nato in carcere o se, piccolissimo, ha dovuto seguire la sorte della mamma.
Il funzionamento dell’istituto penitenziario nell’ex convento San Girolamo viene spesso descritto come “soddisfacente”, nelle relazioni conservate all’Archivio di Stato. Si sottolinea, in alcuni anni, anche l’amicizia tra i detenuti. Ma non fra tutti. Si racconta, in quelle pagine, di un uomo “tutt’altro che benvoluto” dagli altri. “Lo prendevano in giro e lo odiavano perché si rimpinzava di cioccolatini e dolciumi sperperando in tal modo i suoi denari”, si legge. Sono gli anni Sessanta.
Sempre in quegli anni, qualcuno lascia una nota e descrive, non senza lamentele, il carcere di Urbino che appare “privo di una lavorazione, privo di un cortile decente per l’aria”. E ancora: “nel periodo invernale bisogna stare 24 su 24 ore in cella. Manca la televisione che potrebbe rappresentare l’unico mezzo diversivo almeno nelle ore serali, come in tutte le altre carceri”. Anche negli anni Cinquanta i detenuti richiedono di stare al passo con la modernità con l’acquisto di un radio, al tempo negato. Negli anni Settanta, poi, arrivano le proteste e gli scioperi della fame. Nel febbraio 1970 viene lamentata la scarsa luminosità delle celle e “l’eccessiva promiscuità”, oltre alla carenza di personale tra la polizia penitenziaria.
L’analisi della documentazione non arriva agli anni Ottanta del Novecento, quando il carcere ha chiuso definitivamente. Ma la memoria di quello che è stato, per il momento, rimane in quelle che un tempo erano le celle. In un paio di occhiali lasciati su un mobile, un pallone giallo, un giornale.