Di CHIARA RICCIOLINI
URBINO – Cecilia Mangini ha raccontato il suo tempo scegliendo il documentario come mezzo di espressione in un’epoca dominata da registi uomini. Lo raccontano Carmen Accaputo, della cineteca di Bologna, Piero Dorfles e Lella Mazzoli all’anteprima del Festival del giornalismo culturale 2024 che ha celebrato, con una proiezione al cinema Nuova Luce di Urbino, in collaborazione con la Cineteca di Bologna, la prima documentarista del dopoguerra.
Fotografa di strada
Nata nel 1927 a Mola di Bari, Mangini ha intrapreso la carriera fotografica negli anni ’50, ma già dal 1958 si dedicò alla regia con Ignoti alla città, segnando l’inizio di un lungo e prolifico percorso che la vide realizzare 18 documentari fino al 1973, sempre in collaborazione con suo marito Lino Del Fra. Prima di approdare alla regia, Mangini aveva già dimostrato la sua sensibilità attraverso una serie di fotografie scattate nel 1952, immortalando i bambini che lavoravano nelle cave di pomice a Lipari. “Era prima di tutto una grande fotografa, mestiere che lei considerava non per signorine,” ricorda Accaputo.
Uno dei temi ricorrenti nella sua opera è stata l’attenzione verso gli emarginati e le periferie, una scelta che emerge in modo evidente durante il boom economico italiano degli anni ’60, quando Mangini decise di raccontare il lato oscuro di quel benessere diffuso: “Volle andare oltre questo ottimismo, andando dagli emarginati, le persone sole,” spiega Accaputo.
I suoi documentari parlano del consumismo sfrenato, di un’Italia che da agricola stava diventando industriale ma rimaneva un Paese di grosse disuguaglianze sociali. Stendalì (1960), uno dei cinque corti proiettati all’anteprima del Festival, parla della questione meridionale attraverso la lente dell’etnografia, raccontando i riti del pianto funebre in un mondo antico, con un testo tradotto da Pier Paolo Pasolini, suo collaboratore in vari progetti.”Viene la morte che non ci rispetta e c’ha tutti quanti segnati”, cantano le donne in coro intorno al defunto. A precederlo nella proiezione c’è il dittico La canta delle marane (1962), che ritrae la generazione del dopoguerra nelle borgate romane, ispirato ai Ragazzi di vita di Pasolini che ne “scrisse il commento – dice Accaputo – e insieme ritrassero una gioventù spesso dimenticata”.
Regista militante
La produzione di Mangini fu ostacolata dalla censura. Nel 1964, il suo documentario Essere donne, che trattava delle condizioni di vita e di lavoro delle donne italiane, fu premiato all’estero, ma non ricevette il Premio di qualità in Italia, che permetteva al film di essere inserito nelle proiezioni ufficiali dei cinema del Paese. Questa mancanza di riconoscimento la spinse a ritirarsi dalle scene fino al 2012, quando tornò a lavorare con una nuova generazione di documentaristi, realizzando altri cinque film. “Quello di Mangini è un cinema militante, legato al suo impegno politico e sociale, si pone delle domande e si spinge a delle reazioni non banali”, spiega Accaputo.
Uno degli ultimi lavori di Cecilia Mangini, proiettato ieri in anteprima al Festival del Giornalismo Culturale, è Brindisi ’65. In questo corto la regista analizza il processo di industrializzazione nel Sud Italia, mostrando come la costruzione dell’impianto petrolchimico Monteshell avesse portato ben pochi miglioramenti alle condizioni di vita degli operai. “Vogliono anche l’anima per 45 mila lire al mese, o gliela dai o fai finta di non averla”, dice uno degli operai intervistati nel documentario. “Si è passati dalla terra alla catena di montaggio, da una schiavitù a un’altra”, dice Accaputo.
Gli ultimi tre documentari proiettati durante l’anteprima sono La briglia sul collo e Tommaso Lo Russo e Fabio Spada che riportano l’attenzione su temi cruciali come l’infanzia, l’emarginazione sociale dei “disadattati” e la vita nelle periferie.