Di CHIARA RICCIOLINI
Una strada che scende fuori dalle mura di Urbino, dritta giù dalla Valbona, e porta fino a Brasilia, Mendoza, Friburgo, Rennes e Madrid. È la via che ci porta nelle storie di chi ha lasciato questi luoghi e la regione che li incastona. E allora seguiamoli questi nostri emigrati marchigiani, nel loro viaggio dai palazzi rinascimentali fino alle Bocche di leone dei giardini argentini. Loro, finiti all’estero per lavoro, per irrequietezza, per caso. Perché prima di tornare a Itaca, scriveva Konstantinos Kavafis, “devi augurarti che la strada sia lunga, fertile in avventure e in esperienze”.
Le storie di chi è partito
Sembra di sentire il poeta parlare mentre Giulia Donnici, fermignanese trapiantata in Brasile, racconta la sua storia. “Ho vissuto un po’ in tutto il mondo – dice – sono stata cinque anni in Brasile poi sono andata in Birmania, poi Etiopia, poi di nuovo Italia. Adesso sono a Brasilia e lavoro per le Nazioni Unite”. Ma la sua Itaca, Fermignano, è ancora un pensiero costante “torno sempre due volte all’anno. Rivedere la mia famiglia e gli amici di una vita è importante per me”.
Altri invece il territorio urbinate lo avevano scelto come patria di adozione, come Renato Bertini, trevigiano trapiantato a Mendoza, in Argentina, ma abitante di Fossombrone per vent’anni. “Era il mio piccolo paradiso – dice -. Quando avevo venticinque anni, negli anni ‘70, di ritorno da un viaggio in Giappone, capitai nelle Marche e me ne innamorai. Comprai un pezzo di terra e lì costruii la mia casa. Nel 1991 conobbi una ragazza argentina e ci mettemmo insieme. Nel 1997 nacque nostro figlio, e dopo qualche anno abbiamo deciso di trasferirci nel suo Paese”. Poi il matrimonio finisce, ma la famiglia rimane in Argentina e per tornare al piccolo paradiso è troppo tardi.
Non era tardi invece per Giovanni Candioli che dalla Svizzera, dove era partito da giovanissimo, era riuscito davvero a tornare a casa. “Nel 2009 sono tornato a Urbania e ho aperto una pizzeria per tre anni. Nel 2012 però sono tornato in Svizzera perché le tasse italiane ci avevano ammazzato. Io e mia moglie pensavamo di tornare in Italia per stare più tranquilli e lavorare un po’ meno. Ma lavoravamo il doppio e non guadagnavamo niente”.
Tra di loro anche molti giovani, quelli dell’emorragia di cervelli, che si formano in Italia e poi vanno all’estero per lavorare. Simone Bracci, originario di Colli al Metauro, laureato in archeologia a Ravenna, ha scelto la Francia per la Magistrale e lì è poi rimasto. “Qua ho trovato lavoro subito dopo la laurea -, racconta Simone – nel mio campo, l’ Archeologia preventiva. in Italia è molto difficile lavorare. Qui il mondo del lavoro è più flessibile. Si guadagna meglio, c’è meno burocrazia. Dopo anni da ricercatore ho cambiato lavoro e ho aperto un’azienda agricola. Non è stato difficile, qui ci sono molti finanziamenti se vuoi cambiare mestiere e lo Stato investe nella tua formazione”.
Anche la noia di queste terre, belle quanto un po’ desolate, spinge i ventenni a partire, come Chiara Donnini, trentacinquenne di Fossombrone residente a Madrid. “Me ne sono andata nel 2012 appena laureata in design e moda a Urbino – spiega -. Sono sempre stata inquieta e da giovane volevo uscire dalla realtà del mio paesino. Sono stata a Londra tre anni, poi ho conosciuto un ragazzo spagnolo e ci siamo trasferiti a Barcellona. Ora stiamo a Madrid. Ho nostalgia del mio paesino, mi tornano in mente i momenti della mia infanzia, quando correvamo per i campi e rubavamo le angurie. Ma a vent’anni questo non ti basta più. Nelle nostre zone manca il fermento culturale che fa rimanere un giovane”.