di CARLA IALENTI
URBINO – Ore di attesa, diagnosi sbagliate e ambulanze non disponibili. Sono solo alcuni dei disagi che i cittadini di Urbino e dintorni hanno vissuto al pronto soccorso dell’Ospedale Santa Maria della Misericordia nello scorso anno. E la situazione non sembra destinata a cambiare. Nell’atto aziendale esposto lunedì da Alberto Carelli, direttore generale dell’azienda sanitaria territoriale Pesaro e Urbino, durante la Conferenza dei sindaci, non compaiono novità per i pronto soccorso. Il Ducato ha raccolto le voci di quattro persone che hanno subito disavventure. C’è una cosa che accomuna queste storie: tutti i pazienti in questione sono stati visitati da medici gettonisti. Professionisti che gli ospedali pubblici “prendono in prestito” da cooperative private. E che non sono assunti in quell’ospedale e non hanno superato un concorso per lavorare lì.
Storie di malasanità
Francesco di Urbino racconta al Ducato la disavventura del padre di 76 anni. Nella primavera scorsa l’uomo era andato al pronto soccorso, perché, dopo una caduta, si era rotto una vertebra. “Un’attesa infinita e un’intera giornata passata in ospedale”, lamenta Francesco. L’uomo, già affetto da un’enfisema polmonare che richiedeva la cura con farmaci anticoagulanti, cadendo aveva battuto la testa. “Era in evidente stato confusionale, ma il medico, un gettonista anziano, gli fece solo una tac al torace, invece di farne anche un’altra alla testa”, racconta Francesco. Poi, a fine giornata, le dimissioni. “Il giorno dopo mio padre tornò in pronto soccorso a Urbino, perché nel frattempo era peggiorato: un altro medico finalmente capì che serviva una tac alla testa. Dagli esami risultò che aveva un edema cerebrale”. Anche la seconda volta l’uomo fu costretto ad aspettare tutta la giornata su una barella. “Non riusciva nemmeno ad andare in bagno”, racconta il figlio. Dopo una settimana di coma all’ospedale di Urbino, fu trasferito a quello di Pesaro. “Qui i medici riuscirono ad aspirare l’edema, ma considerato che mio padre prendeva i farmaci anticoagulanti la sua situazione clinica era più complicata”. Tuttora il padre di Francesco è allettato e ha problemi neurologici. “Mi resta il dubbio, a un anno dall’episodio, che se fosse stata fatta una tac alla testa subito mio padre oggi sarebbe guarito”.
Anche Patrizia racconta l’esperienza vissuta da sua figlia. A ottobre la ragazza di 15 anni fu portata in ambulanza al pronto soccorso di Urbino con una forte fitta alla pancia. “La sala era stracolma”, racconta la madre. Dopo un antidolorifico e un prelievo del sangue i dolori al lato destro continuarono a farsi sentire. Alle 11.30 un medico, anche lui gettonista, le somministrò un antidolorifico più forte. “Il dottore non si alzò nemmeno dalla sedia”, spiega la madre. Alla richiesta della donna di eseguire un’ecografia, rispose: “Sappiamo fare il nostro lavoro”. Dopo un’altra lunga attesa, finalmente la mandò a fare l’ecografia: la 15enne aveva una cisti di 7 centimetri tra ovaio e utero. Alle 13 l’arrivo in Ginecologia. Nel frattempo l’antidolorifico aveva fatto effetto. Alle 20.30 la ragazza fu operata d’urgenza per una cisti dermoide. “L’intervento andò benissimo, fortunatamente furono salvati tutti gli organi”. Ma la prima accoglienza “lasciò a desiderare”.
Giampaolo, di Urbania, al pronto soccorso di Urbino non è più tornato dopo una diagnosi sbagliata. A fine ottobre l’uomo, 42 anni, arrivò al pronto soccorso con un dolore fortissimo. “Il medico, che era un gettonista, mi chiese i sintomi, ma non si alzò nemmeno dalla sedia”, racconta. “Mi fece stendere sul lettino e fece alzare solo l’infermiera”. Il medico credeva che si trattasse di un’infezione alle vie urinarie. Ma il paziente, che già da tempo avvertiva gli stessi sintomi, aveva già fatto degli esami i cui risultati escludevano fosse affetto da quella patologia. Chiese di poter fare un’ecografia, perché da esami fatti anni prima aveva scoperto di avere dei calcoli nei reni. Ma il medico gli disse che non era necessario. Giampaolo restò due ore sul lettino, nel frattempo l’antidolorifico somministratogli fece effetto. Gli esami delle urine confermarono la sua versione: non aveva alcuna infezione. Dopo ben sei ore di attesa all’ospedale di Urbino tornò a casa con il consiglio di fare una visita urologica. La settimana successiva il dolore si ripresentò, ma allora Giampaolo decise di andare al pronto soccorso di Pesaro. A circa un’ora da casa. Dopo una tac e un’ecografia gli dissero che aveva una colica. Nei mesi successivi Giampaolo, che è in attesa di essere operato, ha avuto altri episodi simili, ma al pronto soccorso di Urbino, nonostante sia il più vicino a casa sua, non ha più messo piede.
Maria, invece, è dovuta arrivare in taxi all’ospedale, perché non poteva camminare. “Chiesi un’ambulanza, ma mi dissero che la mia situazione non era grave”, racconta. “Ho aspettato mezz’ora in una sala che non era il pronto soccorso, non mi hanno dato nemmeno una carrozzina”, continua. In ospedale non c’era l’ortopedico alle 22, ma al telefono la 27enne non era stata avvertita. “Soltanto dopo un’ora mi hanno fatto sedere su una carrozzina e mi hanno fatto una radiografia. La dottoressa che mi ha visitata (anche lei gettonista ndr) mi disse che forse si trattava di una slogatura: mi bendò la caviglia, visibilmente gonfia, e mi consigliò di mettere il ghiaccio. Il giorno dopo sono andata da un medico privato e ho scoperto che era rotta”.
Non c’è da stupirsi se, a queste condizioni, sono sempre di più le persone che rinunciano alle cure nelle Marche, come rileva l’ultimo rapporto Gimbe.
I medici gettonisti: risorsa o problema?
Il ricorso ai medici gettonisti da parte degli ospedali pubblici è diventata una pratica comune negli ultimi tempi. “Sono medici pagati a ore per tamponare le carenze di personale negli ospedali, soprattutto nei pronto soccorso”, si legge sul sito dell’Ordine dei Medici e Chirurghi di Trento. Ma queste “nuove” figure sono problematiche per vari aspetti. “Si tratta di liberi professionisti che danno disponibilità lavorativa solo per qualche giorno alla settimana o qualche mese”, si legge ancora. E a quanto pare è un lavoro che fa gola. “Fra loro anche dipendenti del Servizio sanitario nazionale che si licenziano dal pubblico per ripresentarsi in questa veste privata più vantaggiosa non solo economicamente, ma soprattutto per libertà, tempo e qualità di vita”. E la via d’accesso agli ospedali per loro sembra essere più semplice. “Basta che ci sia un camice bianco e uno che si chiama ‘medico’ perché ha una laurea in medicina ed è iscritto all’albo perché lo si ritenga idoneo a lavorare in un ospedale, anche se non ha le competenze e la specializzazione che servono”, dice Guido Quici, presidente di Cimo, il sindacato dei medici di cui fanno parte medici, veterinari e odontoiatri in servizio o in pensione.
Gli ospedali di comunità: una soluzione possibile?
Per alcuni il problema del pronto soccorso di Urbino, però, deriva principalmente dal numero troppo elevato di accessi. Carlo Ruggeri, presidente del Comitato pro ospedali pubblici Marche, da anni si batte per denunciare le criticità dell’ospedale di Urbino. “Il sovraffollamento si può evitare solo riaprendo gli ospedali di base (dotati di pronto soccorso ndr) di Sassocorvaro, Cagli e Fossombrone, nel 2015 convertiti ad ospedali di comunità, deserti per la maggior parte della giornata. Accogliendo i pazienti con casi meno gravi nei pronto soccorso di questi ospedali, si eviterebbe l’ingorgo in quelli di Urbino”.
Per Ruggeri, però, non basta. L’ospedale Santa Maria della Misericordia dovrebbe diventare di primo livello per garantire cure necessarie a un bacino di 80 mila persone, il che significa che dovrebbe avere un primario per ogni reparto. A Urbino, attualmente, il primario di Chirurgia, è andato in pensione e c’è un sostituto, dice il direttore generale Carelli. Il reparto di Medicina generale, invece, “tra tre o quattro mesi, avrà un nuovo primario, perché il precedente è andato in pensione”, conclude il direttore.