Pizzul, il ricordo di Cucchi: “Un mito, testimone mai protagonista. Tutto molto bello…”

Bruno Pizzul (Foto Ansa) e Riccardo Cucchi
di MARTINA TOMAT

URBINO – Protagonista indiscusso anche se avrebbe voluto rimanere sullo sfondo, sugli spalti. Bruno Pizzul se ne va a quasi 87 anni, col suo solito fare garbato, in punta di piedi, come un ospite che accompagna la porta di casa prima di uscire per non sbatterla. Ma, inevitabilmente, la sua perdita, fa un gran rumore.

Non è mai passato inosservato il telecronista e giornalista friulano, prima voce della Nazionale di calcio, accompagnata con cura per la Rai dal 1986 al 2002: spiccava grazie al suo stile inconfondibile, semplice ma originale e per la sua genuinità e simpatia. Legatissimo alla sua terra natia, fino all’ultimo ha raccontato l’Udinese con degli articoli di commento sul Messaggero Veneto, parole sempre calzanti, mai una buttata a caso. Ospite alle trasmissioni sportive senza mai pavoneggiarsi, infondendo tranquillità e competenza. Faceva perfino la telecronaca del Curling Bisiac, una goliardica forma di curling dove le padelle e i sorrisi si prendevano la scena. Bruno, come un nonno, un fratello, un padre, abbracciava e, ne siamo certi,  continuerà ad abbracciare, più generazioni. Non solo in Friuli ma in tutta Italia capita, è capitato e capiterà di sentire bambini e adulti divertirsi imitando la sua voce nasale e le sue telecronache contagiose e magistrali. Telecronache che hanno da sempre tenuto con le orecchie ritte anche Riccardo Cucchi: “Per me e la mia generazione Bruno, maestro della parola, è stato un punto di riferimento. Prima da radioascoltatore e telespettatore, poi da collega, anche se è difficile definirlo così, è sempre stato un mito, un mito a cui tutti cercavamo di rubare pezzi di mestiere”. Raggiunto al telefono dal Ducato, il radiocronista parla a raffica di Pizzul, con sentimento, rispetto e malinconia. Si sono visti l’ultima volta a Cormons, il paese di Bruno in provincia di Gorizia, per la festa a sorpresa dei suoi 80 anni racconta, ma i due si sentivano spesso anche al telefono. A lui Riccardo deve moltissimo, così ricordi e insegnamenti si intrecciano in un groviglio di emozioni che sorgono spontanee, come Bruno Pizzul.

Qual è il primo ricordo che chiudendo gli occhi ti viene in mente di Bruno Pizzul? 

Ho avuto la fortuna di condividere con lui un’emozionante telecronaca, quella della cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici di Barcellona 1992. Io prendevo appunti prima che cominciasse, lui si è avvicinato con la sua sigaretta immancabile, una compagna di vita, e mi ha detto: “Riccardo, non prendere troppi appunti. Quello che rimane nella memoria è ciò che dovrai utilizzare per raccontare”.

Improvvisava quindi?

Sempre ma con grande competenza. Anche perché è stato un calciatore professionista. Aveva capacità tecniche e conoscenze straordinarie ma soprattutto aveva accumulato l’umanità del giocatore ed era capace di accompagnare il gesto dei più grandi che ha raccontato con la semplicità di chi sa che il calcio è un gioco. Mi ha sempre colpito la sua semplicità, non si sentiva un mito, pur essendolo, né protagonista e invece lo era. Un uomo semplice che non si prendeva sul serio, che non prendeva troppo sul serio il suo mestiere nonostante la grande professionalità.

Un giorno però il gioco si è fatto terribilmente serio. Come ha vissuto la strage dell’Heysel? (il 29 maggio 1985 morirono 39 persone prima dell’inizio della finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool, a Bruxelles ndr)

Quel giorno ero un telespettatore, da casa ho colto la grande sofferenza nel raccontare quello che stava succedendo prima della partita. Soprattutto ho colto la sua umanità anche in questo caso, la sua straordinaria sensibilità, perché la sua preoccupazione più grande non era quella di enfatizzare il dramma come purtroppo succede in alcune circostanze ad alcuni colleghi pur bravi per ergersi a protagonisti del racconto, lui al contrario ha fatto esattamente l’opposto. Ognuno di noi, a casa, stava soffrendo di suo, lui ha cercato di accompagnare questa nostra sofferenza, cercando di non accentuarla, di avere la dolcezza anche in quei momenti drammatici per evitare che le sofferenze aumentassero con la sua voce e con il suo racconto.

Eppure è stato criticato…

Lo criticarono per la telecronaca della partita, fatta normalmente, ma era il suo lavoro: era stato deciso di giocarla ed è stato professionale. 

Com’era Bruno Pizzul fuori dall’ambiente lavorativo? 

Semplice, semplice. (Lo ripete più volte e dal tono di voce sembra schiudersi in un sorriso di ammirazione ndr). Di lui ricorderanno la grande familiarità, entrava nei salotti, nelle case degli italiani con la semplicità di un amico che bussa alla porta.

Si sentiva evidentemente uno di noi, uno di quelli che entravano allo stadio. E non è un caso che molti tifosi di tutta Italia, qualunque fosse la loro appartenenza, gli tributassero sempre omaggi straordinari. Ricordo striscioni dedicati a Bruno Pizzul quando giocava la Nazionale, cosa molto rara, naturalmente per un giornalista. 

Perché piaceva così tanto? 

Perché era capace di rompere il vetro, di diventare uno di noi, proprio per quella sua naturale semplicità e spontaneità. Non era uno che scriveva frasi prima di cominciare una telecronaca. Non si inventava frasi fatte prima di entrare in diretta al microfono. Accompagnava ciò che vedeva e inventava lì al momento. E non è un caso che alcune delle sue frasi siano rimaste nella storia. Quel “tutto, tutto molto bello”, così semplice, così naturale.

Oppure la normalità con la quale chiamava Roberto Baggio, di cui era un grande ammiratore, semplicemente con il nome Roberto in telecronaca. Ma lo faceva per un grande affetto.

Si sarebbe meritato di raccontare una vittoria ai mondiali… 

È un peccato. Non ci è riuscito nel 1990 con quella squadra allenata da Vicini che avrebbe potuto vincere il mondiale e ancora di più con quella di Sacchi che nel 1994, negli Stati Uniti, raggiunse la finale contro il Brasile, ma purtroppo proprio Roberto Baggio, giocatore che lui amava più di tutti, sbagliò il calcio di rigore mandando oltre la traversa i suoi sogni e i nostri. Ma gli spettatori quasi non se lo ricordano che non ha mai raccontato la vittoria di un mondiale, non è il primo pensiero che si ha di lui. 

È stato un suo rimpianto?

Non si è mai rammaricato di non aver potuto gridare “campioni del mondo”, lui sapeva che non era lui il protagonista. Gli attori di una partita sono sempre e soltanto i calciatori.

Qual è l’insegnamento più grande? 

Proprio questo, una cosa fondamentale che vorrei che anche i più giovani tenessero sempre presente: che noi non siamo protagonisti. Chi è al microfono non è protagonista, è semplicemente un testimone, un testimone dell’evento che sta raccontando.

Perché il rischio di sovrapporci, il rischio di essere in qualche modo un po’ presuntuosamente protagonisti perché lo vogliamo, è un grande errore: i protagonisti sono gli atleti che raccontiamo e non noi. Questo è stato il più grande insegnamento che ho cercato di custodire gelosamente anche nel mio lavoro.

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