URBINO – “Una ferita aperta”. Così appare oggi l’ impianto sciistico del comprensorio del monte Catria. Un cantiere permanente che divora la montagna, tra faggete eradicate, crinali sbancati versanti esposti alle frane. Il monte Acuto (1669 metri), una delle cime del massiccio del monte Catria (1701 metri), la vetta più alta della provincia di Pesaro e Urbino, è un luogo di scontro tra sviluppo turistico e tutela del paesaggio, al centro di un procedimento penale che vede due imputati a processo. Giovedì 13 febbraio, la giudice Benedetta Scarcella ha rinviato a giudizio Federico Murro, direttore dei lavori, e Francesco Pretelli, legale dell’omonima ditta esecutrice. Sono accusati di aver violato le prescrizioni ambientali e paesaggistiche. Il processo inizierà il 2 ottobre 2025. Le principali associazioni ambientaliste marchigiane, Italia nostra, Legambiente, Cai, Lupus in fabula, Lipu e Grig, sono state ammesse come parti civili, rappresentate dall’avvocato Tommaso Rossi. Chiedono un risarcimento di 30 mila euro per danni patrimoniali e morali. L’indagine è nata nel 2020 da un esposto degli ambientalisti. Il primo filone, più ampio, legato a violazioni edilizie e paesaggistiche, è stato archiviato per insufficienza di prove; resta quello sulle violazioni alle autorizzazioni ambientali.
Un progetto milionario
Al centro del caso, un progetto da 3,5 milioni di euro,in gran parte fondi pubblici: nuova seggiovia, spostamento dello skilift, bacinoper l’innevamento artificiale a quota 1300, illuminazione notturna, allargamento delle piste. “Abbiamo contestato l’archiviazione – spiega Rossi – ma il filone principale è stato chiuso”. La storia delle ferite inferte al monte Catria è lunga mezzo secolo. Negli anni Settanta, sul vicino monte Acuto, vennero installati skilift e manovie. Dopo poco tempo furono chiusi e rimasero abbandonati per vent’anni.
Nel 2009 un tentativo di rilancio con una cabinovia,presto rivelatosi fallimentare: nebbia, vento forte,scarse nevicate rendevano impossibile un’attività stabile e redditizia.
La montagna deturpata dagli impianti
“È un progetto figlio degli anni Ottanta, scollegato dalla realtà climatica – accusa Fabio Taffetani, docente di botanica all’Università Politecnica delle Marche -.L’impatto era prevedibile”.“Allargare le piste per ospitare gare internazionali di sci alpino è stata una follia:il terreno è fragile e il rilievo inadatto”. Per l’allargamento delle piste sono stati eradicati gli alberi del bosco di faggi e quelli a valle rimasti vengono progressivamente ricoperti da metri di detriti della montagna che si sgretola. Taffetani spiega: “Le piste in pratica hanno perso qualsiasi copertura del terreno, lasciato a roccia nuda.Quando ci sono fenomeni meteorici importanti, le precipitazioni creano frane verso valle estremamente profonde e pericolose”. I danni sono drammatici: piste allargate scavando la roccia, detriti scaricati nei boschi, vegetazione soffocata. “Già nel 2017 – ricorda il professore -, la perdita di una felce rara, presente solo in queste aree dell’Appennino marchigiano, segnalava la lenta distruzione dell’ecosistema”.Il geologo Andrea Dignani conferma: “Molte zone erano già instabili. Ora il rischio per i paesi a valle, come Frontone, è aumentato. Tagliare gli alberi accelera il dissesto”.
Uno “scempio annunciato”,conclude Taffetani, con il timore che, finiti i fondi, l’impianto venga abbando nato, come già accaduto altrove: dai Prati di Tivo alla Fossa di Paganica. Intanto le ruspe continuano a scavare. Ma la neve, su queste vette, si vede sempre meno. E la montagna resta deturpata.