di DANIELE ERLER
PESARO – Esistono due musei: uno è fisico e l’altro digitale. È solo così che oggi le esposizioni d’arte riescono a comunicare. “E senza un’identità è come se un museo non esistesse”. Flaminia Gennari Santori è storica dell’arte e direttore delle Gallerie nazionali di arte antica di Roma, la Barberini e Corsini. Ha aperto il sabato del Festival del giornalismo culturale al teatro Rossini di Pesaro riflettendo su come la narrazione sia importante per i musei.
Quando si parla di musei – ha spiegato Gennari Santori – bisogna intrecciare opere e spazi: “Abbiamo iniziato a chiederci ‘perché siamo diversi?’. Ed è così che abbiamo iniziato a comunicare cosa siamo”. “Noi per esempio abbiamo iniziato in maniera semplice, facendo un nuovo sito e un nuovo logo. Ed è già una prima forma di comunicazione”. Poi c’è stato un passo ulteriore.
È nata così una versione digitale parallela del museo. “Moltissime persone usano il telefono al museo per cercare informazioni sui capolavori che stanno guardando. Sul nostro sito possono trovare approfondimenti e narrazione, fruibili direttamente durante la visita del museo”.
Ma esiste un modello per comunicare l’arte? E il linguaggio deve essere alto, da specialisti, o più popolare? Ne hanno discusso Massimiliano Tonelli, direttore di Artribune, e Gregorio Botta, artista e giornalista culturale. La sensazione è che anche nella comunicazione dell’arte qualcosa stia cambiando.
“Stiamo entrando in un’epoca di divulgazione visiva di massa – dice Botta – io ho coniato un termine: ‘artreiment’, l’arte come forma di intrattenimento”. “È molto pericoloso – aggiunge Tonelli – perché c’è il rischio di banalizzare i concetti. Resta comunque una forma interessante di divulgazione, da tenere d’occhio. C’è di peggio”.
Ovvero? “Le experience”, dice Botta. Sono i musei totalmente digitali: quando si aprono delle grandi esposizioni senza quadri, con le opere che non sono presenti fisicamente ma vengono proiettate. Esistono solo in maniera virtuale. È questo il futuro dei musei? Botta e Tonelli credono di no: “Le chiamano ‘experience’ ma non danno una vera e propria esperienza. Questi musei virtuali non lasciano nulla”.
Eppure queste esposizioni funzionano e soprattutto intercettano un settore di pubblico – quello giovanile – altrimenti difficile da attirare. La sfida per i musei, quelli tradizionali, è questa. Riuscire a farsi conoscere, cercare nuovi mezzi di comunicazione – compresi i social media –, senza svilire la propria missione. “E in questo – dice Tonelli – gli artisti sono ancora molto indietro”.