di GIACOMO PULETTI
URBINO – Una maschera antigas, tre filtri, una dose di adrenalina. Era questo il kit di base che fu consegnato a Maria Gianniti prima della partenza per l’Iraq, dove si pensava che Saddam Hussein avrebbe potuto usare da un momento all’altro armi chimiche sui civili. Era il 2003 e la giornalista, per 17 anni inviata della redazione esteri per il giornale radio della Rai, si stava preparando a raccontare quella che sarebbe diventata una delle guerre più lunghe della storia recente.
Quell’attrezzatura, per fortuna, non venne mai utilizzata, come ha raccontato l’inviata Rai, ora al Tg1, agli allievi dell’Istituto per la formazione al giornalismo di Urbino.
Seduto accanto a lei c’è John Fiegener, 16 anni alla Cnn e poi 8 anni in Iraq da Bureau Chief di Fox News. Davanti a loro, venti praticanti giornalisti pronti a carpire ogni aneddoto della vita da “inviati in trincea”.
“È stata la guerra in Bosnia a cambiare tutto – spiega John, che ora vive a Roma da giornalista freelance – perché con l’arrivo delle tv all news la guerra non era più raccontata da qualcuno lontano migliaia di chilometri, ma ti entrava direttamente in casa. A big change”.
E per dare ancora di più l’idea di com’è stare in prima linea l’ex caporedattore di Fox ha portato la sua attrezzatura di quegli anni: un casco che sembra più un elmetto da soldato e un giubbotto antiproiettile molto pesante, ma “tra i più leggeri”. Lo solleva e fa vedere come si indossa.
Sembra risoluto, John, quando parla delle imboscate subite mentre seguiva i marines o dei colpi di mitraglietta “che venivano da destra e sinistra e l’unica cosa da fare era stendersi e sperare che andasse tutto bene”. Ha l’aria di chi sa di essere sfuggito alla morte pur di fare ciò che gli riesce meglio: raccontare i fatti.
“Il compito è inviare alla redazione il pezzo a fine giornata – continua – ed è questo che spinge ad andare avanti ogni volta. Non abbiate paura”.
Poi però illustra le linee guida del Dipartimento di Stato americano in caso di rapimento, e un brivido corre lungo la schiena: “Cercate di chiamare subito qualcuno, se potete”; “Cancellate immediatamente le cose potenzialmente irritanti per i rapitori presenti nel vostro cellulare (video, foto, interviste); “Non parlate mai con i terroristi di temi profondi come Dio, religione, politica”.
Si parla di modi diversi di fare giornalismo, della differenza tra giornalismo radiofonico, molto più “leggero” e veloce, e quello televisivo, per il quale “devi trovare delle storie da raccontare”; di multimedialità e di Internet; di umanità.
I due ospiti spiegano che molto spesso le donne sono avvantaggiate perché, in molte zone di guerra, specialmente in Medio Oriente, possono entrare nelle case di altre donne, a differenza dei giornalisti uomini. Diventa fondamentale quando bisogna raccontare di crimini efferati come stupri di massa, violenze, abusi.
In aula regna il silenzio, si ascoltano con attenzione le parole di chi ha vissuto davvero la guerra, con i bombardamenti a tappeto, le sparatorie, i cecchini che uccidono dai tetti delle case.
È proprio parlando del bombardamento su Gaza da parte di Israele nel 2014 che il volto di Maria diventa più teso, contrito.
“Eravamo nel pieno delle tensione tra Israele e Palestina – racconta – e non si poteva uscire dalla striscia di Gaza se non quando lo decideva il governo israeliano, mettendo a disposizione delle navette. Non sapevi se saresti uscito, e quando. Ci sarebbe voluto un giorno, forse due o magari una settimana”.
In questi casi diventa fondamentale avere un “fixer”, una buona guida locale che possa indicarti quali zone sono più sicure e quali meno, così da evitare di incappare in brutti guai. Come quella volta al Cairo, nel pieno delle rivolte di piazza Tahrir che avrebbero portato alla destituzione del Rais Hosni Mubarak.
“Eravamo davanti a una moschea – spiega con emozione la Gianniti – e io avrei voluto andar via, sentivo che c’era qualcosa di strano. Il mio fixer, invece, ha preso la decisione sbagliata, proponendomi di entrare. È stato un attimo, una frazione di secondo, e funzionari della polizia egiziana ci hanno portato via”.
Tre ore in caserma, ma nel frattempo la giornalista era riuscita ad avvertire la diplomazia italiana ed è stata rilasciata, previa attenta cancellazione dello scrupoloso lavoro fatto durante la giornata e che avrebbe dovuto inviare a Roma. Per quel giorno, niente servizio dal Cairo, ma nessuno l’aveva maltrattata.
Il momento che ricorda con maggior serenità, invece, se si può parlare di serenità in una zona di guerra, è il 4 luglio 2006. “Ero a Gaza – spiega – e vedere la semifinale del mondiale Italia-Germania con 1500 palestinesi che tifavano per noi è stato emozionante”.
La grande differenza nel raccontare i conflitti è tra l’avere una struttura organizzata alle spalle che provvede a spese di assicurazione e ha sedi dislocate nei vari angoli del mondo dove trovare rifugio, oppure lavorare da freelance, spesso senza un’adeguata preparazione alle spalle.
“In questo caso – continua la giornalista Rai – è importante iscriversi alle liste online del consolato italiano, così da far sapere ai nostri funzionari diplomatici dove siamo e con chi. Bastano dieci minuti, e a volte può salvarti la vita”.
È a questo punto che Maria mostra il suo passaporto, ce l’ha in borsa perché è appena tornata da Istanbul. Lo apre, spiega che nell’ultima pagina ci sono i numeri di emergenza da chiamare in caso di pericolo e lo appoggia al petto, vicino al cuore: “Quando viaggio – dice – lo porto sempre con me”.