di NICCOLÒ SEVERINI
URBINO – Quattro impresari agli arresti domiciliari e due fermati con obbligo di dimora per sfruttamento del lavoro ai danni di 17 dipendenti. Questo il reato contestato agli impresari di una ditta di assemblaggio e facchinaggio di Sant’Angelo in Vado. I sei uomini, tutti pakistani, obbligavano i lavoratori, loro connazionali e quasi tutti richiedenti asilo, a restituire all’impresa tra i 200 e i 600 euro al mese del loro stipendio dietro minaccia.
L’intervento congiunto della Guardia di Finanza di Urbino e del nucleo operativo del lavoro dei Carabinieri di Venezia è avvenuto nella notte a Sant’Angelo in Vado. “È importantissimo che due forze dell’ordine così collaborino per sventare questa rete criminosa”, si è complimentato Andrea Boni, procuratore generale del tribunale di Urbino.
La denuncia di uno dei lavoratori, aiutato dalle associazioni sindacali, ha spronato gli altri 16 a seguirlo e ha dato il via alle indagini a fine 2018. Le indagini, gestite insieme dalle due forze dell’ordine, hanno portato a scoprire che gli impresari della ditta, operante nella zona del Valmetauro, minacciavano di licenziare i dipendenti se non avessero restituito i soldi. Tutto ciò grazie alla paura: infatti i lavoratori avevano bisogno di un contratto regolare di lavoro per mantenere il permesso di soggiorno. Gianfranco Albanese, maggiore dei carabinieri, ha raccontato alcuni dettagli: “Abbiamo arrestato tre uomini a Sant’Angelo in Vado e l’altro, che riteniamo il soggetto principale, a Roma di rientro dal Pakistan”. Infatti, secondo gli inquirenti, risulta essere il presidente pro tempore dell’associazione.
I rapporti, sia a tempo determinato che indeterminato, erano perfettamente regolari, così come l’impresa, registrata a Pesaro, dove ha la sede legale. Risultano infatti versati correttamente gli stipendi, e i trattamenti di fine rapporto. Secondo le denunce, chi voleva usufruire delle ferie era costretto però a licenziarsi e il Tfr veniva prima versato poi ripreso grazie allo stesso meccanismo delle buste paga. Chi aveva un contratto a cottimo subiva la stessa sorte e in caso di rifiuto per una nuova prestazione veniva sanzionato con delle “multe”. I dipendenti che oltre al denaro necessario al proprio sostentamento in Italia, mantengono anche le loro famiglie in Pakistan, percepivano solo 5 dei 9 euro previsti dal contratto collettivo nazionale.
Boni ha spiegato: “Quest’operazione assume una valenza maggiore grazie alla normativa sul caporalato del 2016. Il legislatore ha voluto tutelare i lavoratori anche nel caso in cui sia l’imprenditore a sfruttarli e non solo l’intermediario, come previsto dalla riforma del 2011″. Per la prima volta dall’attuazione, il gip Vito Savino ha nominato un amministratore per portare avanti l’impresa in modo da salvaguardare i posti di lavoro. Il capitano della Guardia di Finanza di Urbino Arcangelo Mottola precisa sulle cifre in conferenza stampa: “Abbiamo provveduto a sequestrare una somma di 157.000 euro. Sui conti corrente degli impresari ci sono i saldi attivi e nelle loro case anche i contanti”. Per concludere il maggiore Albanese ha fornito altri particolari: “Gli indagati erano anche in possesso delle carte di credito intestate ai dipendenti e i loro pin, per poter prelevare direttamente dai loro conti correnti”.