Cronache da Wuhan, dove il Coronavirus è partito. Santelli, corrispondente di Repubblica: “Stare sul posto: essenza del mestiere”

Filippo Santelli, corrispondente dalla Cina di Repubblica, durante i servizi da Wuhan, la città epicentro dell'epidemia
di FILIPPO CAMPO ANTICO

URBINO – Filippo Santelli, 35 anni, è corrispondente di Repubblica dalla Cina. A dicembre, tre giorni dopo lo scoppio del Coronavirus, è andato a Wuhan, primo e unico giornalista italiano. Indossata la mascherina, ha filmato la città deserta, ha raccontato la paura. Poi è tornato a Pechino, dove ha continuato a seguire l’emergenza chiuso in casa, in una quarantena che si è autoimposto. Ha raccontato cosa ha voluto dire vivere 14 giorni con la paura di aver contratto il Coronavirus per le strade della metropoli cinese.

Santelli, ha avuto paura di ammalarsi?

“Beh, se dicessi no direi una bugia. Ogni piccolo colpo di tosse, che magari mi veniva per una mollica andata di traverso, mi metteva un po’ di agitazione. E alla fine, al quindicesimo giorno ho tirato un bel sospiro di sollievo. Anche se, devo dire, dalle informazioni che avevo raccolto sapevo che il mio essere giovane avrebbe comunque favorito una mia guarigione”.

Come ha deciso di andare proprio lì, nella città blindata e deserta, nei giorni in cui faceva paura a tutto il mondo?

“Se non ci fossi andato sarei venuto meno al mio dovere professionale. Essere sul posto, raccontare in presa diretta quello che accade nel paese nel quale vivi è l’essenza stessa del mestiere di corrispondente. Forse, ripensandoci, andare a Wuhan è stato un po’ da incoscienti”.

Prima che blindassero i confini di Wuhan è tornato a Pechino. Come mai?

“Stavo scrivendo un articolo di notte nel mio albergo, quando ho letto su un lancio di agenzia: “Da domani la città sarà in quarantena”. Ho fatto di fretta le valigie e ho preso il primo volo per Pechino. Se fossi rimasto lì avrei raccontato tante altre storie interessanti ma il timore di rimanere bloccato nel focolaio era troppo”.

L’auto-quarantena: dolore fisico o psicologico?

“Sicuramente psicologico. Una volta arrivato nella capitale ho affrontato un’auto-quarantena di 14 giorni, in cui mi concedevo una mezz’ora d’aria ogni giorno. È stato difficile soprattutto dal punto di vista mentale, perché non puoi parlare con nessuno. A ogni colpetto di tosse, l’ansia: ‘Sarò stato contagiato?'”.

Quali saranno gli sviluppi del contagio?

“In questo momento i dati mostrano una diminuzione nei contagi in Cina: ogni giorno le persone guarite sono superiori ai nuovi casi confermati, sia a Wuhan, dove la situazione rimane molto grave, che nel resto della Cina. Sembra, dunque, che abbiamo scollinato un picco, ma potrebbero esserci nuovi picchi, soprattutto se si togliessero i blocchi che sono stati messi finora”.

Veniamo al suo lavoro. Come è diventato corrispondente dalla Cina?

“Il direttore del giornale, Mario Calabresi, aveva messo al bando la posizione di corrispondente in Cina, che in quel momento si era liberata, e io ho partecipato, ma senza crederci troppo. Per qualche strano scherzo del destino, hanno scelto proprio me”.

In Cina alcune notizie vengono nascoste, basti pensare a quando Xi Jinping ha dichiarato di essere a conoscenza del Coronavirus già dal 7 gennaio

“Sì, ma in quel caso è stata la stessa narrativa ufficiale ad aver voluto comunicare che Xi era già a conoscenza del Covid-19, perché c’è stato un tentativo di scaricare la responsabilità sui funzionari locali per evitare che la rabbia per una malagestione della crisi potesse intaccare la legittimità del Partito. Il messaggio che si voleva far passare è stato: “Xi aveva comunicato ai funzionari locali l’emergenza ma loro non lo hanno ascoltato”. Xi potrebbe non averlo saputo davvero, considerando un problema comunicativo che esiste tra il centro e la periferia, perché nessuno ‘osa’ portare cattive notizie all’imperatore”.

La copertura mediatica cinese sulla crisi legata al Covid-19 è stata soddisfacente? 

“Ci sono dei media che si sanno muovere all’interno dei limiti concessi dal regime, che hanno fornito sicuramente un buon servizio alla cittadinanza.  Ad esempio alcuni giornali ‘liberi’ hanno ripreso la denuncia del medico 34enne, Li Wenliang, sulla pericolosità del virus . Dopo la sua morte, la popolazione si è movimentata, e il regime ha chiuso gli spazi precedentemente concessi dal Partito e i media di regime hanno ripreso una narrazione imposta dall’alto. Poi, c’è un mondo di blogger che riesce a comunicare perché la censura arriva in ritardo o, a volte, non riesce neanche ad arrivare in modo incisivo”.

Quali sono le fonti in Cina?

“Ci sono fonti ufficiali, che poi sono quelle che arrivano dall’apparato politico del Partito comunista o dai media di regime, che veicolano un messaggio univoco. È difficile discostarsi da questa narrazione, perché è molto difficile riuscire a intervistare i politici cinesi: per loro parlare con i giornalisti è una grana. È più facile parlare con dei consulenti del Partito, i cosiddetti think tank, o con esperti internazionali e, ovviamente, con le persone”.

Come si verifica l’attendibilità delle notizie in un regime?

“Nel dubbio, bisogna sempre riportare la fonte, che sono i media di regime. Poi, bisogna essere capaci di interpretare i segnali, che vengono mandati involontariamente da alcuni consulenti. Ancora, è possibile verificare una notizia con dati meno manipolabili. Ad esempio, quando il regime comunica dei dati relativi alla crescita economica, si possono andare a vedere i consumi di elettricità delle famiglie o la vendita di automobili per verificarne l’attendibilità”.

Sei mai stato ostacolato dal regime nel dare determinate informazioni?

“Mi è capitato di intervistare figure ostili nei confronti del Partito e l’ho potuto fare senza che nessuno me lo impedisse. Sicuramente l’ambasciata cinese in Italia legge quello che scrivo. Il suo compito è compilare dei report su quello che pubblicano tutti i corrispondenti italiani. Ogni anno, quando vai a rinnovare il tuo tesserino giornalistico, ti fanno un “discorsetto” su quello che hai pubblicato. Solo in situazioni estreme questo porta a un mancato rinnovamento della tessera. Sono forme di pressione psicologica”.

E il caso dei tre giornalisti del Wall Street Journal che sono stati espulsi dal Paese dopo un articolo sulla crisi economica in seguito all’epidemia dovuta al virus?

“In questa storia bisogna considerare lo storico conflitto politico tra Usa e Cina e il fatto che il regime considera i giornalisti americani come se fossero dei diplomatici. È sicuramente un episodio da condannare ma va inserito in questo contesto più ampio”.

Com’è il rapporto lavorativo con i corrispondenti degli altri giornali?

“È un gioco di squadra. Un giornalismo collettivo. Anche le verifiche delle notizie si basano sulla possibilità dei colleghi di altri media di accedere a fonti non ufficiali, anonime e nascoste”.

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