di MARIA ELENA MARSICO, EMILIA LEBAN e GUGLIELMO MARIA VESPIGNANI
URBINO – Sorridono Matteo, Fabio, Pietro e Aniello, quando rispondono alle domande su cosa voglia dire stare tutti i giorni in prima linea sull’uscio della porta, pronti a consegnare il pranzo o la cena. Ci parlano in maniera familiare, un po’ come lo sono per loro le strade di Urbino, attraverso le quali si muovono a bordo dei loro mezzi. Nel vuoto dei primi mesi del 2021, con la pandemia che ha annientato qualsiasi forma di aggregazione negli spazi pubblici, a riempire le strade sono stati proprio i rider, i fattorini del food delivery, a Urbino e in centinaia di altre città italiane. Soli, veloci e silenziosi, lavorano percorrendo decine di chilometri ogni giorno e arrivano nei capillari dei corpi urbani e metropolitani, le case, dove, per buona parte dell’ultimo anno e mezzo, tutto il sangue delle pulsioni sociali e collettive è stato costretto a rimanere.
A Urbino i rider sentono di essere tutelati e rispettati. Parlano della loro occupazione con un’espressione serena in viso, talvolta anche con affezione al luogo in cui lavorano. La ragione principale si trova proprio nelle condizioni contrattuali a cui sono sottoposti. “Mio fratello e mia cognata sono i proprietari del ristorante” ci racconta Fabio, 52 anni. Per lui le consegne a domicilio sono un lavoro nell’impresa di famiglia. Fabio, così come tutti gli altri rider che abbiamo intervistato, è assunto dal locale per cui lavora e non deve intrattenere rapporti lavorativi con la piattaforma online a cui si appoggia il suo ristorante. Gli ordini arrivano anche da Gadana, Trasanni, Mazzaferro, luoghi che raggiunge con la macchina. “Prima del Covid facevo 10-12 consegne a sera, dato che a pranzo non c’è il servizio a domicilio. Ora sono diminuite.” E quando gli chiediamo se si è mai sentito in pericolo lavorando per strada per tutto questo tempo, ci risponde: “Soltanto una volta ho fatto un incidente perché l’asfalto era ghiacciato, ma in realtà non mi sono mai sentito in pericolo a fare questo lavoro”.
La stessa cosa ci dice Pietro, studente di scienze motorie di 29 anni che consegna per un ristorante di sushi take-away. Certo, conciliare l’occupazione con l’università non è semplice, e Pietro ce lo conferma: “Durante la giornata studio, faccio consegne dalle 18 alle 22 e poi devo portare fuori il cane. Prima dell’una non vado mai a dormire”. Ma sul lavoro si trova bene: “I proprietari sono seri, sono stato assunto sotto contratto fin dal primo giorno di prova, e non mi sono mai sentito in pericolo.” Lui e il suo collega Aniello, salernitano, anche lui 29 anni, sanno benissimo che non è scontato avere un contratto regolare e datori di lavoro che ti rispettano. “Io sono stato fortunato – dice Aniello. Mi hanno fatto il contratto subito, ma so che ci sono tante persone che questo lavoro lo fanno in nero, mentre altri sono “a metà”. Ci vorrebbero più tutele, sopratutto nelle grandi città, dove i rider sono costantemente in pericolo per il traffico e per i loro mezzi di trasporto.” E anche Matteo, studente di fotografia milanese di 21 anni, condivide la solidarietà con le proteste dei suoi colleghi di altre città: “Le piattaforme non possono ignorare gli episodi di violenza come quelli avvenuti a Milano e a Napoli”.
Le parole dei rider dipingono Urbino come un’eccezione. Il lavoro dei fattorini delle piattaforme online di delivery è diventato quasi un simbolo contemporaneo della schiavitù legalizzata. Paga a cottimo, orario subordinato alla velocità delle consegne e nessuna tutela sindacale e sanitaria fanno dei rider dei lavoratori costretti a rispondere alle esigenze di efficienza dell’algoritmo e a sottostare a una condizione di lavoro alienante e spersonalizzante. Tutto ciò ha portato i rider di oltre trenta città italiane a indire, il 26 marzo scorso, lo sciopero nazionale del settore: il “No Delivery Day”. Una grande giornata di protesta, frutto di mesi di campagne territoriali che hanno portato i rider, qualche settimana prima dello sciopero, a ottenere un miglioramento delle condizioni contrattuali da parte di JustEat. La piattaforma online, una delle più usate in Italia, ha cominciato ad assumere i propri dipendenti con contratto subordinato, comprensivo di monte ore garantito e paga minima ora di 9 euro l’ora.
RIDERS UNION – Il sindacalista: “Essenziali ma ancora precari”
La solidarietà dei consumatori
La lotta dei rider ha fatto quindi dei passi importanti, ma è ben distante dall’essere conclusa. Lo sanno i fattorini, scesi in piazza nonostante la vittoria contro JustEat – o forse proprio per questo. Ma cominciano a esserne consapevoli anche coloro che stanno dall’altra parte della consegna: i clienti delle piattaforme.
In occasione del No Delivery Day il Ducato ha realizzato un’inchiesta-lampo, intervistando un campione di 90 urbinati. Poco meno del 40% degli intervistati ha ordinato almeno una volta cibo o altri beni di consumo a casa nel corso dell’ultimo anno. Circa i due terzi invece, il 63 percento, era a conoscenza del No Delivery Day. Di questi, il 96% ha dichiarato l’intenzione di non ordinare cibo o altro online nel giorno dello sciopero e la quasi totalità di loro rinuncerebbe a usare quei servizi che non assicurano un adeguato standard salariale e sociale ai dipendenti.
Il sondaggio ha quindi rivelato una generale sensibilità e consapevolezza da parte del campione di cittadini di Urbino intervistato, nonché un pressoché unanime riconoscimento dell’importanza delle tematiche sindacali che coinvolgono una categoria rimasta a lungo ai margini del dibattito sociale. Fino a poco tempo fa i riflettori sui rider erano accesi solo per raccontare l’ennesimo episodio di infortunio o tragedia sul lavoro, ma ora i cubi sulle spalle dei rider iniziano a essere pieni di riscatto.