di ENRICO MASCILLI MIGLIORINI
URBINO – Oggi l’italiano è un ragazzo che cresce e, come cantava il gruppo punk emiliano CCCP negli anni ’70: “Sta bene, sta male”. Perché, secondo la professoressa Lella Mazzoli- direttrice del Festival del giornalismo culturale, l’italiano vive di ondate, a volte grosse e altre di risacca.
In generale sta più bene che male, lo dicono i dati della ricerca Lingua e linguaggio nell’Italia post-pandemia dell’Osservatorio News-Italia, commentati questo pomeriggio nella sala del trono di Palzzo Ducale con Giovanni Boccia Artieri, Alessandro Zaccuri e Andrea Fagnoni del centro Ipsos, coordinati da Piero Dorfles. Grazie ai social network si scrive di più, ma non necessariamente si scrive “meglio”. È qui che la lingua cambia, perde di contesto. Anche gli insulti. E per imparare a governare questa trasformazione, secondo i relatori, dobbiamo affidarci ai ragazzi.
La ricerca: l’italiano è “in salute”, ma serve un’educazione social. Anche per le news
Dalla lettura dei dati è emerso che gli italiani hanno bisogno di un’educazione ai social, altrimenti si rischia di comunicare solamente con chi la pensa come noi (eco chambers), creando un mondo ideale basato su supposizioni. Perché è anche nell’incubatrice dei social network che la lingua si evolve.
“Non bisogna demonizzare la tecnologia e i nuovi strumenti – dice Mazzoli- che possono e devono trasformarsi in nuove fonti di cultura”. “Dobbiamo sempre vedere il lato positivo”, continua. Con i social, ad esempio, le persone hanno ripreso a scrivere, ma le istituzioni devono curarsi di come gli italiani si informano e comunicano”.
Frattura generazionale: la lingua come il clima
“Per gli italiani due ragazze su dieci tra i 15 e i 19 anni hanno un figlio, come sempre due su dieci sono musulmani, ma non è vero. Addirittura sono convinti che 2 persone su 3 abbiamo uno smartphone, mentre la percentuale è di un terzo”, commenta Fagnoni. Il fenomeno si chiama “voci di percezione”.
È più facile per gli over 30 e 50 cadere in questa trappola, anche perché sia i social che altri canali come Youtube privilegiano linguaggio basso e offensivo, che innesca più condivisioni e dibattito. “Se scrivi ‘vaccini’ su Youtube e metti un video di un virologo, se lasci andare i video correlati dopo non molto ti troverai a guardare un video di novax”, dice Boccia Artieri.
Temi divisivi e polarizzanti, che portano a scaldarsi, reagire, commentare. Anche se il linguaggio di odio (hate speech) esiste da sempre e gli sfottò hanno anche contribuito ad arricchire la nostra lingua con nuove espressioni, ma oggi sono decontestualizzate. Come ricorda Fagnoni, “le parole vivono del loro contesto, vivono di una loro globalità. Non esiste la parola corretta o scorretta, non si può eretizzare un etimo, ma bisogna intervenire accrescendo il dialogo tra generazioni e tra culture, così da allargare l’italiano”.
I giovani tra i 18 e i 24 anni ad esempio hanno sviluppato delle sensibilità su tematiche legate alla violenza linguistica più forti rispetto ai genitori. “Stessa cosa che è successa con l’ambiente. Loro puntano il dito a noi che siamo in questa platea dicendoci che abbiamo rovinato il mondo e loro lo salveranno”.
I media che non mediano più
Pier Paolo Pasolini negli anni ’70 disse che il medium televisivo aveva finalmente creato l’italiano, ma era una lingua tecnocratica e a lui non piaceva. “Colpa della sua fascinazione romantica per le classi sottoproletarie e per la loro cultura, che in realtà è conservatrice che non poteva affrontare le grandi novità del nostro tempo, soprattutto legate ai diritti civili”, taglia corto Dorfles.
Per Boccia Artieri e Mazzoli, oggi non c’è un’impostazione di linguaggio dall’alto ed è un sintomo del distacco della classe dirigente da questi temi. Ci sono ambienti in cui si creano lingua e altri i cui si ripete. Oggi esistono luoghi virtuali che ci permettono di entrare verticalmente nei vari linguaggi. “Ci sono dei neodialetti, come quelli della rete, si pensi alle e-live o all’uso diverso delle emoji nelle chat“, puntualizza Boccia Artieri.
“Duemila lemmi li usiamo tutti, ma è una lingua base, non tecnocratica. È vero che la tv ebbe questo ruolo, ma ora lo ha perso”. “I media non mediano più”, continua Mazzoli, “si adattano al registro basso. Si nota un adeguamento progressivo alla comunicazione più bassa. In un certo senso bisognerebbe tornare ai tempi del maestro Manzi.”
Esercizi di stile: l’antitaliano
In un saggio del 1968 titolato L’antitaliano, Italo Calvino parlava del terrore del cittadino medio di usare termini semplici come bottiglia, che per il carabiniere diventa “contenitore di liquido” e per l’impiegato è “il vino”, per sineddoche. Così si sono sviluppati tanti modi di dire, piccoli dialetti circoscritti a luoghi più che a zone geografiche. Sono i 90 capitoli di Esercizi di stile di Raymond Queneau, che raccontano lo stesso spintonamento su un bus di Parigi da 90 punti di vista lessicali diversi.
“Oggi quei 90 capitoli sarebbero 45”, dice la scrittrice Stefania Auci. “La lingua è più povera nei testi scolastici, i ragazzi non comprendono i testi. Non ci sono meno termini, non meno approfonditi, si perde la specificità e il significato nei contesti”.
“Che le istituzioni prendano seriamente la questione”, conclude Dorfles. Che i media creino mondi alternativi che non corrispondono a quello reale, ma che lo influenzano “non è sorprendente: è allarmante”.