di MARIA ELENA MARSICO
URBINO – Indossa un maglione bianco con dei disegni, un cappotto nero e in spalla ha uno zainetto. Rudolf (nome di fantasia) ha 22 anni e quando decide di incontrarci è appena uscito dall’università, a Urbino, dove studia giurisprudenza. Parla un italiano fluente, perché vive in un paesino dell’Emilia Romagna da quando aveva sei anni, ma è nato in Russia dove torna quando può. A Petrovo, un paese a circa 100 chilometri da Mosca, c’è parte della sua famiglia e si trovava a casa dei suoi nonni materni il giorno in cui è stata attaccata l’Ucraina, il 24 febbraio. Seduto davanti al Teatro Sanzio, accetta di raccontare il suo viaggio, dalla Russia a Urbino. In aereo, fino alla fine di febbraio, ci sarebbero volute tre ore. Lui ci ha impiegato tre giorni.
Da Petrovo al confine con l’Ucraina
È il 28 febbraio quando sospendono i voli dalla Russia, “inizio a pensare a come poter tornare in Italia”, racconta Rudolf al Ducato. “E così alle tre di notte tra l’1 e il 2 marzo decido di partire con una persona che conosce mio nonno e che mi accompagna fino alla frontiera dove vive. Al confine arrivo dopo quasi nove ore di viaggio, poi prendo un bus navetta per passare la frontiera e arrivare a Sumy, in Ucraina (non era ancora stata attaccata ndr). Il mio obiettivo è evitare le zone di conflitto e arrivare a Leopoli cercando un passaggio”. I mezzi di trasporto, infatti, non ci sono e l’unico modo per andare via dalla città è a bordo di un’auto privata. Così Rudolf inizia a chiedere un passaggio per lasciare Sumy. “Fermo almeno otto macchine chiedendo in quale direzione vadano. Portano dei bagagli, quindi sono persone che scappano. Non voglio dire da dove vengo, ho il timore che possa succedermi qualcosa avendo origini russe, così dico di essere semplicemente uno studente italiano”.
“Sentivamo il rumore delle esplosioni”
Rudolf in Ucraina non ha internet nel telefono, è a un distributore a circa 20 chilometri dal confine dove arriva con un taxi quando riesce a prendere un passaggio. In auto ci sono due ragazzi che parlano “forse olandese”, dice, e due ragazze russofone. Si scambiano pochissime parole tra di loro e lo fanno in inglese. Sono in viaggio verso Leopoli e il clima è troppo teso per comunicare. “Sentiamo i rumori delle esplosioni e vediamo gli aerei volare sopra di noi. Quel rumore è la cosa che mi fa più paura perché potrebbe accadere qualcosa da un momento all’altro. Il boato delle esplosioni ci fa tremare”, racconta Rudolf. Il viaggio da Sumy dura quasi quattro ore. Lungo il tragitto riesce a scorgere i segni del conflitto e dei bombardamenti.
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La notte a Leopoli
Sono le otto di sera quando arriva in un’affollata Leopoli da solo perché i compagni di viaggio proseguono il loro cammino verso chissà quale città. Alle nove scatta il coprifuoco fino alle sette di mattina. “Trascorro la notte in una struttura ricettiva simile a un ostello. All’entrata pago cento dollari. È il primo posto in cui trovo disponibilità perché è tutto occupato”. Rudolf descrive i dettagli di quel momento. Le camere all’interno della struttura sono occupate anche da più di dieci persone per stanza. Nella hall c’è tantissima gente intorno a lui. La maggior parte sono donne e bambini. Rudolf, come altri, è seduto su una sedia bianca di plastica. “Gli adulti fanno videochiamate piangendo, i bambini continuano a giocare, ridono. Non si accorgono di quanto sta accadendo”, ricorda Rudolf.
“C’è chi parte solo con le buste di plastica”
È ormai mattina quando si dirige verso la stazione. Vorrebbe prendere un treno per arrivare in Romania ma non c’è posto, sono tutti in partenza. Sono donne e bambini e partono con pochissimi bagagli, c’è chi ha soltanto qualche busta di plastica con le cose essenziali. “Lì assisto alla scena più forte dal punto di vista emotivo – racconta – c’è un neonato, avrà pochi mesi, in braccio al papà che però non parte. Arrivato il momento dei saluti, la madre in lacrime prende in braccio il figlio che inizia a piangere, come se capisse tutto”. Rudolf a quel punto torna di nuovo in ostello e decide di partire con due donne e una bambina che lo accompagnano alla frontiera al confine con la Romania vicino a Siret, in una zona neutrale a circa tre ore di distanza, per 400 dollari. “Un volo aereo di solito costa molto meno, anche 80 euro, perché cerco le offerte – specifica Rudolf – Mi sono reso conto solo una volta arrivato a casa di quanto ho speso. La gente che fugge dalla guerra ha poco con sé e ognuno chiede una cifra diversa”.
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Lì sale su un’auto, c’è un uomo con i baffi che sarebbe partito soltanto una volta riempita la vettura. Arrivano, così, altre persone e dopo venti minuti sono in fila per la dogana. “Ci sono tantissime macchine con la targa ucraina. Al confine fanno tantissimi controlli, impiegano anche un’ora e mezza a macchina. Per passare la dogana ci mettiamo circa tre ore. Lì vedo la disperazione delle persone. Sono spaesati. Io devo attraversare l’Ucraina per tornare a casa mia, in Italia, loro invece lì stanno lasciando la loro vita”.
4 marzo, il volo per l’Italia
Arrivato a Botosani, in Romania, a dieci chilometri dalla frontiera, Rudolf riesce a trovare un albergo e a controllare i voli per ritornare in Italia. È la sera del 3 marzo. Il giorno dopo riesce a partire e a salire su un aereo diretto a Bologna dall’aeroporto di Iasi. È il terzo disponibile della giornata, i primi due voli sono per Bergamo e per Treviso ma non ci sono posti.
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In aeroporto lo attende il padre in lacrime. “È più preoccupato di me. Io realizzo soltanto dopo quello che mi è successo. All’inizio, quando passavano gli aerei militari, mi sembrava di vivere in un film”, spiega Rudolf che però precisa: “Quando sono partito dalla Russia non ero sicuro di riuscire a tornare sano e salvo. Non volevo rendere nota la mia provenienza che non ho mai rivelato. Il mio timore più grande, infatti, era che potessero farmi del male. Ho trovato, invece, grande umanità. Gli ucraini mi hanno aiutato tanto”. In Russia le manifestazioni sono nelle grandi città come Mosca o San Pietroburgo, ma nei paesini la situazione è diversa. “La gente non è informata. Secondo loro Putin avrebbe dovuto conquistare tutto in tre giorni, con più brutalità – racconta Rudolf – Io reputo incomprensibili tali iniziative, a prescindere dalla natura delle motivazioni che lo hanno spinto a fare tutto questo. Non avrei mai pensato che sarebbe arrivato a tanto, ma chi rimane al potere per così tanto tempo arriva poi a sentirsi invincibile e quindi, di conseguenza, c’era il rischio che potesse fare quanto ha fatto. Considero Putin il maggiore responsabile di questo orrore, penso anche, però, che il presidente ucraino Zelensky non stia facendo il massimo per permettere che tutto questo si concluda presto. Anzi, credo che stia spingendo su dei tasti che rischiano di portare questo conflitto a diventare sempre più grande”.