di MARIA DESSOLE
URBINO – Chi ha trascorso almeno un inverno a Urbino avrà certamente sentito il racconto del “nevone”, una nevicata anomala che coprì con oltre tre metri di neve la città ducale nel febbraio del 2012. I giornalisti del Ducato, tra i pochi cronisti che raccontarono l’evento dal suo inizio fino al disgelo, descrissero una Urbino sepolta e in difficoltà. C’era talmente tanta neve che non si poteva uscire di casa e tutti gli abitanti si misero a spalare. Ne cadde così tanta che nei punti in ombra sotto le mura la neve non si sciolse fino all’estate. Dodici anni dopo, la stagione 2023-2024 è stato l’esatto opposto.
Ora che l’inverno meteorologico (convenzionalmente dicembre-febbraio) è finito, si può parlare di un nuovo record, questa volta negativo: nemmeno un centimetro di neve, nemmeno nei mesi in cui statisticamente nevica di più, gennaio e febbraio. A certificarlo ci sono anche i dati raccolti dall’Osservatorio meteorologico Alessandro Serpieri. Questo è vero non solo a Urbino. Anche il panorama sui monti Nerone, Catria e Carpegna è bruno e brullo, cristallizzato in eterni colori autunnali.
Questo è un stato un inverno anomalo non solo nella memoria storica degli abitanti della città ducale, ma anche in quella ultrasecolare dell’Osservatorio Serpieri. Nel 2023 spiega il responsabile della raccolta dati dell’osservatorio Piero Paolucci “non c’è stata una struttura ciclonica tipica dell’inverno. Siamo passati da un lungo autunno a un inizio di primavera sul nostro territorio. Pur essendoci state veloci e coreografiche precipitazioni nevose in Appennino non hanno contribuito a rendere gli accumuli duraturi”. Questa è un danno grossissimo per l’approvvigionamento idrico. La neve sui monti è fondamentale, ripete Paolucci, “su quelle vette deve esserci almeno un paio di mesi con temperature sotto zero. In queste condizioni la neve si consolida sciogliendosi lentamente, e consentendo l’assorbimento di tutta l’acqua caduta che genera la preziosa riserva per l’estate”.
Il cambiamento climatico
“Il vulnus attuale, degli ultimi 20-30 anni, è che le perturbazioni e le altre pressioni non si muovono più come prima. Ecco il cambiamento climatico: non ci sono più le stesse azioni e reazioni che avevamo fino alla fine degli anni 80”.
Paolucci ha quindi prospettato una sorta di obsolescenza dei dati raccolti: “la conseguenza è che tutti i dati accumulati fino agli anni ’80 oggi servono a poco. Nelle stesse condizioni non succederà la stessa cosa. Gli anticicloni sono diventati più potenti, le basse pressioni sono diventate meno incisive, più relegate al nord Europa”.
La nuova via delle perturbazioni
Fino a una decina di anni fa la strada delle perturbazioni primaverili e autunnali, quelle che portano il grosso della pioggia dell’anno, era più facile: nate nell’Atlantico, attraversavano l’oceano caricandosi di umidità che scaricavano sulle prime terre che incontravano, tra cui l’Italia. Ora, spiega Paolucci, “l’anticiclone africano è diventato più potente che nel passato. Ha preso possesso del Mediterraneo”. Questo nuovo assetto, figlio dall’innalzamento delle temperature, allunga e rende “più tortuosa la strada delle perturbazioni” conclude il responsabile.
Come si misura la neve
La rilevazione della neve si fa manualmente. Tre volte al giorno, alle 8 alle 14 e alle 19, nelle ore cosiddette sinottiche, vengono registrati i dati. La cadenza temporanea molto specifica risale al 1850, anno in cui Alessandro Serpieri, all’epoca docente al Collegio Raffaello, diede vita all’Osservatorio meteorologico. Oggi è uno dei più antichi al mondo, con oltre 170 anni di attività ininterrotta, premiato nel 2018 dall’organizzazione metereologica mondiale.
Alla qualità delle registrazioni hanno contribuito “l’immobilità di Urbino, del suo territorio e dei suoi abitanti” racconta Paolucci al Ducato. Grazie al metodo di osservazione, identico in quanto trasmesso da padre in figlio per tre generazioni di Paolucci, il patrimonio di dati vanta una altissima affidabilità.
Gli impianti sciistici
Niente neve significa niente sport invernali. Il Ducato ha sentito il gestore della stazione sciistica del monte Catria (1250 – 1500 metri), Michele Oradei che ha raccontato, di una stagione sciistica che non è mai partita. L’anno scorso per il comprensorio l’annata è stata ottima, 41 giorni di apertura, contro zero di quest’anno. Ma, come testimoniato da Oradei, “considerato il cambiamento climatico, nelle Marche un inverno secco e arido c’è sempre ciclicamente. Ogni quattro o cinque anni, così stato nel 2016 e nel 2020. Negli Appennini una carenza di neve, anzi di precipitazioni, è quasi sistematica”.
Concorde con questa voce è il racconto del rifugio chalet principe Corsini sul monte Nerone che, con il suo impianto sciistico a quota 1526, non ha registrato nemmeno un giorno di apertura: “La stagione sciistica non è nemmeno partita, non si è vista neve quest’anno”.
Neve che normalmente costituisce la riserva idrica per i mesi di siccità, e che sciogliendosi viene assorbita capillarmente dal terreno. Ma quest’anno è mancata. Le spolverate che hanno imbiancato per brevissimo tempo i monti Nerone, Carpegna e Catria improduttive, e non allevieranno la stagione secca dei mesi estivi.