Carla Ialenti
URBINO – A Palazzo Battiferri si è tenuto il primo dei quattri incontri su Paolo Volponi e il lavoro nella letteratura italiana del Novecento dal titolo “Volponi e Olivetti”, organizzato dall’associazione Proteo Fare Sapere. “Un illuminista” lo scrittore urbinate che mise al centro del lavoro – e della fabbrica – “l’uomo, unico e irripetibile”, “rifiutando il concetto di uomo-massa”. È così che la professoressa Maria Laura Ercolani descrive il poeta che lavorò per vent’anni alla Olivetti, la fabbrica di Ivrea che divenne tra le più importanti al mondo per la produzione di macchine da scrivere.
Gli anni alla Olivetti: dalla fabbrica al progetto sociale
Con Volponi e Adriano Olivetti , “suo grande maestro” il lavoro in fabbrica divenne “libero e liberante”: “Era il mio capo, ma non ricordo di aver avuto un capo” dice la professoressa Ercolani riprendendo le parole di Federico Butera, che, giovanissimo, fu assunto da Volponi nella fabbrica Olivetti.
Lo scrittore che “matura il suo pensiero nella fabbrica riesce a immaginare una nuova società a partire dalla fabbrica” dice Massimo Baldacci, presidente nazionale di Proteo Fare Sapere. “Pochi come Volponi riescono ad analizzare il nesso tra società e industria” ricorda il professore.
La cultura e la qualità della vita migliorano il lavoro
Alla Olivetti Volponi conobbe la realtà del lavoro e organizzò un sistema di welfare basato sulla cultura e la qualità della vita. E la Olivetti fu la prima fabbrica in Italia a riconoscere le 150 ore retribuite per le attività culturali. Volponi, infatti, era convinto che gli operai dovevano lottare non solo per un salario più alto, ma per un miglioramento generale del lavoro, possibile anche grazie alla cultura.
Con Olivetti si abbandona il modello lavorativo verticalizzato, sostituendo per la prima volta in Italia alla catena di montaggio – che costringeva l’uomo a lavorare su singoli pezzi e compiere movimenti ripetitivi – il lavoro a isole, in cui un gruppo di operai collaborava e realizzava un intero prodotto. Senza capi né servi, la fabbrica diventava un posto in cui tutti, grazie alla formazione e al lavoro di gruppo, imparavano qualcosa in più ogni giorno.
La macchina e l’uomo: un rapporto inscindibile
L’umanesimo di Volponi si riflette anche nella convinzione che “l’uomo deve essere in grado di modificare la macchina” e nel “rifiuto della catena di montaggio come “lavoro che condanna l’operaio a compiere movimenti semplici e identici” e a “lavorare solo su singoli pezzi”.
Secondo lo scrittore, infatti, “dietro ogni macchina c’era una certa concezione della persona, per cui da una bassa considerazione dell’uomo derivava una macchina molto semplice” dice Ercolani. “Una macchina che non aiuta il lavoratore a migliorare, ma che lo rende perfettamente sostituibile”. E, invece, se si crede nell’uomo come unico e irripetibile, si può realizzare una macchina che lo aiuti, non che lo condanni alla solitudine e a diventare un ingranaggio.
L’etica al centro del nuovo modello di lavoro
Non più alienato, solo e apatico, l’operaio lavorava assieme agli altri e grazie agli altri conosceva sé stesso. Il lavoro per Volponi diventa occasione di miglioramento: “La formazione serviva non solo al profitto, ma anche a far crescere la parte umana di ogni lavoratore” dice la professoressa Ercolani.
La Olivetti si distinse per la sua responsabilità morale nei confronti dei lavoratori e della società: “Al primo posto c’era l’etica, non il profitto” continua. E cambia anche il rapporto tra dimensione morale e dimensione economica: “l’etica non è contrapposta al profitto secondo Volponi – dice la professoressa – anzi l’etica, a lungo termine, giova al profitto”.
Il profitto a breve termine, invece, era per Volponi il vero nemico dell’uomo e portava un guadagno immediato, ma un peggioramento della fabbrica e delle condizioni non solo lavorative ma anche umane dell’operaio.
L’attualità di Paolo Volponi
Il progetto di Volponi non fu un’utopia, anzi lo scrittore, direttore del personale alla Olivetti, riuscì a realizzare il suo progetto sociale, convinto che “ogni uomo doveva agire nella storia” e “migliorare la società grazie alle proprie qualità”. E “raggiunse il suo intento almeno nell’immediato”, come ricorda Ercolani.
“La lavorazione a isole fu sperimentata quando c’era Volponi e funzionò anche dopo che lui lasciò la Olivetti”, lontano ormai dal modello di fabbrica del presidente Bruno Visentini, basato sulla leadership. Poi, però, il modello di lavoro a isole fu ostacolato dai finanziatori che volevano un guadagno immediato” e in più “ci fu il passaggio alla robotizzazione”, conclude la professoressa Ercolani.
Ma il cambiamento apportato da Volponi nel mondo del lavoro non può dirsi superato. Secondo Ercolani, infatti, “il progetto sociale di Volponi è ancora valido e ci insegna l’importanza della cultura per la società, ma anche nel mondo del lavoro, che deve aiutarci a capire chi siamo e come possiamo migliorare noi stessi e la società in cui viviamo”, che” educa alla responsabilità e aiuta ad agire non come servi, ma come leader, anche nei ruoli subalterni”.