Fgcult 2024 – Meringolo: “Le reporter di guerra hanno portato lo sguardo sulle vittime civili”

Azzurra Meringolo, esperta di Medio Oriente, inviata del Giornale Radio Rai
di MARIA SELENE CLEMENTE

URBINO – L’anno più letale per il giornalismo. Secondo il Commettee to protect journalists, un’organizzazione indipendente che promuove la libertà di stampa nel mondo sono almeno 116 le giornaliste e i giornalisti – inclusi gli operatori dell’informazione – uccisi nella guerra di Gaza. “Si tratta del periodo più mortale dal 1992, anno in cui abbiamo iniziato a raccogliere i dati”, riporta il sito dell’organizzazione.

Il 2024, in Italia, è stato anche il decimo anniversario dalla morte del fotoreporter Andy Rocchelli, ucciso da fuoco ucraino nel 2014, insieme al suo interprete Andrei Mironov, mentre documentava le condizioni dei civili nel conflitto del Donbass. La sua storia ci costringe a ragionare sul livello di (in)sicurezza con cui le giornaliste e i giornalisti si trovano oggi a lavorare sul campo, specialmente se indipendenti. 

Dei rischi di questo mestiere, anche dal punto di vista psicologico, della motivazione e di cosa cambia quando a raccontare una guerra è una donna, ne abbiamo parlato con Azzurra Meringolo, esperta di Medio Oriente e inviata del Giornale Radio Rai. 

Azzurra Meringolo, esperta di Medio Oriente e inviata del Giornale Radio Rai

Indossare l’elmetto e il giubbotto antiproiettile con la scritta “Press” è ancora uno strumento di protezione o sta diventando un modo per rendere i reporter bersagli più facili da colpire?

“Partirei dicendo che la verità è la prima vittima di ogni guerra e chi cerca di raccontarla rischia di diventare un obiettivo. Quando ho iniziato a fare questo lavoro, circa dieci, quindici anni fa, l’idea era che l’elmetto e il giubbetto ci potessero proteggere. In realtà, da tre o quattro anni mi sono trovata personalmente a decidere di togliere la scritta “Press” dalla macchina, che spesso è stata vandalizzata. Mi sono accorta che non era opportuno e ci dava più sicurezza essere delle persone normali; ci permetteva di non dare nell’occhio”.

È una esperienza che lega a un contesto di guerra o conflitto particolare? 

“Sicuramente ci è successo in Ucraina. Anche se per le leggi del diritto internazionale vigenti devi essere riconoscibile come giornalista, altrimenti diventi ambiguo. Quindi non è una scelta facile da prendere. Il contesto israelo-palestinese è diverso, la linea del fronte è invalicabile – non siamo riusciti a entrare in maniera indipendente nella Striscia di Gaza – ma detto ciò, tra i Territori occupati palestinesi e Israele la guerra si sente. È un contesto differente, il conflitto si respira anche solo passando da una strada all’altra e il nostro fare da spola ci espone – anche perché i giornalisti locali non possono farlo (per via dei check point militari e dei permessi ndr)”. 

La sicurezza è ancora centrale per le redazioni che hanno reporter in guerra?

“Partire è un costo o un investimento. Da un punto di vista editoriale vuol dire prendere la decisione di coprire una certa storia con un inviato, che diventa i tuoi occhi, e di non rifarti a fonti secondarie; significa che quella storia merita di essere trattata toccandola con mano. Ma partire in sicurezza ha un costo enorme”.

Coprire le spese di viaggio e di alloggio, l’assicurazione sanitaria, il fixer e l’interprete (quando non coincide con il primo) sono solo alcuni dei costi che un tempo le redazioni coprivano per avere un giornalista  sul campo. Oggi rischiano di diventare quasi dei “benefit”…

“E ci dovrebbe essere anche la preparazione dell’inviato. Sono aspetti che dobbiamo rivendicare per tutelare il nostro lavoro oltre che la nostra vita. Dobbiamo essere consapevoli dei rischi in cui incorriamo. Partire in sicurezza è un tema centrale. E la sicurezza è anche il nostro equilibrio mentale, che si lega al vivere scene che ovviamente poi ci portiamo dentro, che filtriamo per il pubblico, ma che restano dentro di noi quando torniamo a casa. Sono temi che, come inviati non freelance, dobbiamo rivendicare anche per permettere di estendere questo diritto ai reporter indipendenti che hanno meno garanzie”.

Il supporto psicologico, anche all’interno di un’azienda pubblica, non è previsto?

“Ad oggi no. È un tema di dibattito. La guerra in Ucraina ha creato la possibilità di parlarne ed è una grande opportunità. Non va persa. Partire in sicurezza è fondamentale ed è un nostro dovere soprattutto per chi non ha una grande azienda alle spalle.  Siamo tutte e tutti sicuramente mossi da una grande passione – sennò questo lavoro non lo fai – ma resta comunque un lavoro”.

Esiste ancora un mandato sociale dietro la professione del reporter o la società sta abbandonando questo mestiere?

“Il mio editore sono i miei ascoltatori. È a loro che penso quando faccio il mio percorso e decido di raccontare una zona complessa che è impossibile ridurre in un minuto. Cerco di parlare non solo degli aspetti militari della guerra ma anche della società, delle donne, dei bambini; e ancora della sanità, dell’educazione e dell’economia, impegnandomi a dare voce a chi rappresenta tutti questi tasselli della realtà. Per questo una trasferta va programmata e ragionata. Ci guadagna la qualità del nostro lavoro”.

Ha detto che senza una grande motivazione questo lavoro non si può fare. Qual è la sua? E  come riesce a mantenerla salda?

“La curiosità sicuramente è qualcosa che mi ha sempre mossa e mi ha spinta a cercare le notizie, oltre i titoli. C’è questa distinzione tra il giornalista impiegato e il giornalista vero. Nello specifico dell’ambito di cui mi occupo, ad esempio, ogni giorno ci sono spunti dal Medio Oriente. Se c’è la curiosità oggi ci sono tutti i mezzi per raccontare, anche senza rincorrere le notizie che stanno nei nostri giornali, cercando ad esempio di nominare le periferie dell’informazione. Ogni storia ha un suo spazio e alcune le racconto solo in certi contenitori giornalistici. Il mondo dell’informazione è cambiato e ci sono degli spazi che hanno tempi più lunghi e che danno la possibilità di raccontare in modo preciso e puntuale una storia”.

Cosa cambia se a guardare una guerra o un conflitto è una donna?

“La letteratura femminile di guerra purtroppo non è molto studiata in Italia. Una delle principali corrispondenti di guerra del XX secolo è stata Martha Gellhorn, spesso impropriamente ricordata solo per essere stata (per pochi anni peraltro) moglie di Ernest Hemingway. Gellhorn ha fatto capire che le guerre non sono solo armi, fronti, sconfitte e vittorie. Le guerre sono anche gli effetti sui civili. Io credo che le inviate abbiano avuto il merito di portare le vittime delle guerre dalla periferia alla ribalta dell’informazione. Hanno messo le telecamere di fronte a loro. La prima lotta che le donne hanno dovuto affrontare è stata quella per avere l’accredito giornalistico e quindi già l’accesso alla professione. Poi hanno avuto l’autorizzazione alle zone di guerra ma non al fronte. Hanno storicamente dovuto dimostrare di essere al pari degli uomini e questo è valido ancora oggi. Poi si sono fatte spazio e hanno fatto emergere i drammi civili”.

Le guerre non sono solo armi, fronti, sconfitte e vittorie. Le guerre sono anche gli effetti sui civili.

Martha Gellhorn

“Nei Balcani, per esempio, le donne hanno fatto emergere la violenza di genere come arma di guerra. E penso a un altro caso ancora: Marguerite Higgins, prima donna a vincere il premio Pulitzer. Il racconto delle donne inviate ha arricchito il racconto della guerra, lo ha reso più completo e ha tolto la centralità della narrazione dell’aspetto militare e questo non ha tolto nulla alla loro capacità giornalistica di fare ‘scoop’. Anzi, a fare lo scoop del secolo del Novecento fu proprio una donna, Clare Hollingworth, la prima a scoprire che l’invasione tedesca della Polonia era alle porte. Nel suo diario si legge che nessuno le credeva. E il suo articolo su questo argomento uscì senza firma, proprio perché era una donna e quindi poco attendibile. In una lettera scrisse: ‘Come è possibile che ancora oggi le donne debbano dimostrare di essere all’altezza?'”.


A lei è successo di dovere dimostrare di essere all’altezza nonostante le sue competenze?

“Come donna mi sono trovata in situazioni in cui dovevo dimostrare di essere capace e adatta, di avere le competenze di raccontare queste storie di conflitto. All’inizio mi venivano affidati i temi più ‘femminili’ che non erano affatto coerenti con il mio curriculum. Io ero preparata su zone di crisi, guerra, Medio Oriente, lingua araba. Per farcela, ho dovuto tenere chiaro il mio obiettivo nella testa che questo era ciò che volevo fare e non volevo essere spostata su temi in cui si ritiene che le donne abbiano più capacità. Ho dovuto fare prevalere il mio curriculum sull’essere donna”.

Ho dovuto fare prevalere il mio curriculum sull’essere donna

Azzurra Meringolo

Il lavoro del reporter è ancora irrinunciabile o sta venendo meno per via della sovrabbondanza di racconti e immagini che arrivano a mezzo social?

“La  ricchezza di fonti ha ridotto la dipendenza dagli inviati. Oggi possiamo raccontare ciò che accade in Libano da Roma. Però, e qui torna il riferimento alla scelta editoriale di un giornale, l’inviato può dare un contributo, anche significativo, con le  proprie competenze e i propri piedi sul terreno. Questo sì, è inestimabile e irrinunciabile anche per la credibilità dell’informazione”.

Cosa serve alla “questione femminile” di questo lavoro?

“Negli ultimi decenni tanto è stato fatto per l’emancipazione femminile. Una componente del nostro lavoro è la competizione e questo impedisce la possibilità di fare rete tra donne, mentre il bisogno è enorme. Io credo nella necessità di avviare percorsi di mentoring e mentorship dove le donne che ce l’hanno fatta sostengono le più giovani. Io mi sento di volere investire su questo: abbiamo bisogno di sostenerci a vicenda”. 

Come ha reso compatibile la sua professione con la vita personale e familiare?

“Il racconto del mondo ha sempre fatto parte della mia identità. Ci ho messo del tempo però a capire come volevo farlo. Non se volevo farlo – quello lo sapevo da quando avevo 8 anni e passavo il tempo con un gioco da tavola che si chiamava Corriere della sera e lavoravo alle riunioni di redazione, al sommario e alle prime pagine. Ma ci ho messo molto a capire come volevo fare la giornalista e a trovare un’azienda nella quale crescere. Passare quindi  dal mestiere più bello del mondo, che è quello del freelance, a una grande azienda, dove tutto è più strutturato. Ho cercato di tenere la mia vita insieme in tutte le sue parti. Ho affrontato un percorso senza cesure”.

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