Fgcult 2024 – Le inviate (e inviati) di guerra: “Il genere? Conta solo essere bravi giornalisti. Ma il mestiere resta poco accessibile”

Panel Tv e Social. Le inviate alla dodicesima edizione del Festival del giornalismo culturale. Credits: Lula Merlo
Di ANDREA BOCCHINI

URBINO – A Beirut, in Libano, le lancette sono un’ora avanti. Quando, dalla Sala del Trono di Palazzo Ducale, parte il collegamento, alle 18.00, lì sono già le 19.00. Dall’altra parte dello schermo, da una stanza d’hotel, appaiono Azzurra Meringolo, inviata del Giornale Radio Rai, e Marta Serafini, inviata del Corriere della Sera.

Non siamo abituati a vederle in video: entrambe lavorano con altri media e ora sono sul campo per raccontare la guerra in Medio Oriente. La stessa guerra che sta documentando Giammarco Sicuro, inviato Rai per il Tg3 e fotoreporter di guerra, in diretta da Tel Aviv (Israele). Passano pochi minuti e il collegamento si sposta a 3400 chilometri di distanza. A Kiev, in Ucraina, c’è Davide Maria De Luca, giornalista del Domani. Anche lì (purtroppo) c’è un conflitto da raccontare.

Sono sul terreno delle guerre in atto in questo 2024 e sono le inviate e gli inviati del panel “Tv e social. Le inviate”, un momento forte della seconda giornata della 12a edizione del Festival del giornalismo culturale. A moderare l’incontro è Giorgio Zanchini, giornalista della Rai e co-direttore del Festival, accompagnato per l’occasione da Maria Concetta Valente, praticante dell’Istituto per la formazione al giornalismo di Urbino (Ifg).

Azzurra Meringolo e Marta Serafini in collegamento da Beirut. Credits: Lula Merlo

Una professione ancora poco accessibile

Cosa significa raccontare una guerra? Quali le differenze se a farlo è un uomo o una donna? E ancora, fare figli è un ostacolo nel vostro mestiere? Domande che aprono vari spunti di riflessione da parte sia delle inviate che degli inviati. Ma sulla questione, Serafini non ha dubbi: “La differenza non la fa il genere dell’inviato, ma la persona che sei”.  Insomma, “se si è brave persone allora si è anche bravi giornalisti. Non importa se si è donna o uomo. Punto”.

Una risposta su cui anche Meringolo è d’accordo. Per quanto riguarda la professione, c’è ancora da lavorare: “Il nostro oggi è ancora un lavoro poco accessibile. Non solo per quello che riguarda la nostra vita privata, ma penso anche alla percezione di come veniamo viste”. Una condizione che deve assolutamente essere superata: “Quello che dobbiamo fare è rendere il ruolo di inviata di guerra accessibile a tutti senza dover rinunciare ad altre cose della nostra vita – continua -. In quanto donne, penso che questo sia uno degli ostacoli più grandi da superare”.

“Per un uomo può risultare più facile”

Anche se con sguardo maschile, la linea di pensiero di Sicuro è la stessa: “Il nostro è un campo dove noto ancora un divario di genere. Certo, vedo tantissime colleghe valide ma non posso dire la stessa cosa per i vertici delle redazioni. Ci vorrebbero più donne come direttrici”.

Ma quella dell’inviata resta una condizione che non è per nulla facile, trovandosi a volte in situazioni scomode: “Essere una donna che vuole far giornalismo di guerra (purtroppo) è complicato – spiega De Luca -. E il motivo sta nei pregiudizi e negli ambienti fortemente dominati da mascolinità e prepotenza testosteronica di alcune zone”.

Non solo. “Se una mamma decide di fare l’inviata le viene contestato di mancare di responsabilità (nel lasciare il figlio a casa). Non ho mai sentito un discorso del genere per un inviato padre”. Ma non è sempre così. “Conosco moltissime colleghe capaci di superare questi ostacoli, ma ammetto che, quando arrivo al fronte e vedono che sono un maschio con la barba, riesco a entrare. Lo stesso non si può dire per una mia collega”.

Giammarco Sicuro in collegamento da Tel Aviv. Credits: Lula Merlo

Dare voce a chi non la ha

Raccontare una guerra, però, significa anche dar voce a chi non la ha. E a volte le immagini non servono. Lo sa bene Azzurra Meringolo: “Ci sono tanti dettagli e sfumature che possono sfuggire alla videocamera. E le persone a volte, in certe zone, preferiscono non essere riprese”.

Ma il fronte è solo una parte di quello che succede realmente: “Le persone che restano senza compagno o marito perché e andato a combattere oppure i bambini per strada con le scuole chiuse. Sono tutti aspetti che si riescono a evidenziare anche senza l’uso delle immagini e in questo noi donne abbiamo dato un contributo enorme”.

Discorso a parte è quello sulla carta stampata che “è meno scenografico, ma credo fortemente possa cambiare le cose – spiega Serafini -. Certo, è un racconto difficile perché le storie e le situazioni di conflitto si assomigliano tutte ma dove è possibile occorre andare non solo con la telecamera e cercare di dar voce a chi non la ha”.

Azzurra Meringolo e Marta Serafini in collegamento

Poco spazio

Ma non tutte le voci e i racconti (purtroppo) trovano spazio. “Il giornalismo italiano ha un grosso problema – dice Sicuro -. C’è sempre più difficoltà nel convincere caporedattori e direttori nel mandare in onda un racconto che dia voce alle persone”. Ad essere preferite, infatti, sono i servizi con taglio militaresco, mentre “i racconti delle vittime del conflitto, cioè quello che ti fanno capire cos’è realmente il giornalismo, non vengono trasmessi”. Perché, in fondo, “il giornalismo è lì sul posto per raccontare e non per elencare il numero dei missili caduti”, conclude Sicuro.

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